Baiamonte Tiepolo (Calle). Vedi Remèr. Balbi dai colori (Calle) a S. Marcuola. Vedi Colori. Balbi o Morosini (Sottoportico, Corte) a S. Benedetto. Nel 1713 qui possedevano casa il «N. U. D.co Balbi fu de S. Michiel, ed NN. UU. Michiel e frat. Morosini». Per la prima famiglia vedi Venier e Balbi (Campiello); per la seconda Morosini (Calle, Corte) a S. Giovanni Grisostomo. Banco giro (Sottoportico del) a Rialto. Cinge da due lati la piazzetta di S. Giacomo, ed è sormontato da una parte delle «Fabbriche Vecchie». Acquistò il nome dall'essere stato sede del pubblico banco mercantile, detto «Bancogiro». I banchi di Venezia s'istituirono nel 1157, ed erano da prima affatto privati. Quasi sempre venivano tenuti dai nobili, i quali, per altro, dovevano presentare all'ufficio dei «Consoli sopra Mecanti» un fideiussore fino alla concorrenza di certa somma. Nel 1524 si formò pure il Magistrato dei «Provveditori sopra Banchi», e si presero altre cautele in proposito. Tuttavia, siccome parecchi banchieri fallivano, così nel 1584 venne istituito, per consiglio di Jacopo Foscarini, il banco di cui teniamo parola sotto la guarentigia del governo. «Codesto banco», dice il continuatore del Berlan, «si poteva più propriamente intitolare banco di depositi, dappoiché non emetteva biglietti pagabili al presentatore, ma trasportava le partite da un nome all'altro, e restituiva ai privati i loro depositi quandunque avessero voluto, avendo il Governo destinato a tal uopo fino dal principio i capitali occorrenti. Un senatore, col nome di depositario, ne teneva la presidenza, e tutti gl'impiegati avevano obbligo di prestar sicurtà. Il banco aprivasi sul mezzo giorno, e nel corso dell'anno si teneva chiuso straordinariamente quattro volte per fare i bilanci generali, nel qual tempo il danaro serbavasi nella pubblica Zecca, ove lo si portava processionalmente lungo la Merceria; e tutti i bottegai, durante quel trasporto, dovevano star ritti sulla porta con picche ed alabarde in mano per esser pronti alla difesa del tesoro. La scrittura di banco tenevasi per lire, soldi, danari. La lira corrispondeva a dieci ducati d'argento; ma siccome la moneta di banco godeva l'aggio del venti per cento, così valeva dodici ducati. Il soldo corrispondeva a lire 4, soldi 16, della moneta corrente, ed il danaro a soldi 8 comuni. Per rendere più difficili alterazioni nei giri del banco, si facevano con apposite cifre, dette dagli scrittori d'allora figure imperiali, e trattandosi d'un giro a debito dello Stato, nol si poteva eseguire se non dietro speciale decreto del Pregadi». Presso il «Sottoportico del Banco Giro» scorgesi un antichissimo tronco di colonna, sormontato da una lastra di marmo, da cui si bandivano le leggi al tempo della Repubblica. Mette alla sommità di detta colonna una picciola scala sostenuta da una statua ricurva, chiamata il «Gobbo di Rialto», scultura di Pietro da Salò (1541). Riguardo al «Gobbo di Rialto» scrive la cronaca Barba (Classe VII, Cod. 66 della Marciana): «Jera costume in Venetia che, quando era terminato un per ladro, over per altro, ad esser frustado da S. Marco a Rialto, li malfatori, come erano in Rialto, andavano a basar il Gobbo di pietra viva che tien la scala che ascende alla colonna delle grida; fu terminado che più questi tali non andassero a far tale effetto, et però fu posto in la colonna sopra il canton, sotto il pergolo grando in Rialto, una pietra con una croce, et uno S. Marco di sopra, aciò li frustadi vadano de cetero a basar la d. +, et fu posta a dì 13 marzo 1545». Il S. Marco e la Croce si vedono tuttora. Il «Gobbo di Rialto» ebbe un ristauro nel 1836, postavi a salvaguardia una barriera di ferro. In tale occasione il Cicogna scrisse, nel giornale intitolato il «Vaglio», uno spiritoso articolo, donde si desume che questa statua, al pari di quelle di Pasquino e Marforio in Roma, venne fatta parlare a stampa fino dal 1577 col «Dialogo del Gobbo da Rialto et Marocco dalle pipone delle colonne di S. Marco sopra la cometa alli giorni passati apparsa su nel cielo». Per «Marocco» qui si vuol intendere una di quelle piccole figure poste ai gradini delle colonne della «Piazzetta di S. Marco», la quale tiene una cesta di poponi. Seguita il Cicogna ad annoverare altri dialoghi satirici e corrispondenze del «Gobbo» con Pasquino e Marforio, che si pubblicarono nei secoli successivi. Banco Salviati (Fondamenta ecc.). Vedi Tamossi. Bandiera e Moro (Piazza) a S. Giovanni in Bragora. Questa località, la quale prima dicevasi «Campo della Bragola», assunse la denominazione attuale in onore dei due fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, già qui domiciliati nel palazzo Soderini, i quali, con Domenico Moro, ed altri compagni, subirono per la libertà italiana la morte a Cosenza nel 1844. Nel 1867 si tradussero i mortali avanzi dei Bandiera e del Moro a Venezia, e furono sepolti nella Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Quanto al vecchio nome di «Campo della Bragola», convien osservare che «Bragola», «Bragora», «Bracata», e «Braida» chiamavasi ab origine l'isola sopra cui sorge la chiesa di S. Giovanni Battista. Quest'isola era una delle «Gemini», o «Gemelle», le quali, oltre la contrada che ci occupiamo ad illustrare, comprendevano quelle di S. Martino, di S. Lorenzo, e di S. Severo, e si dicevano «Gemini», o perché fossero anticamente consecrate al culto dei Gemini (Castore e Polluce), o perché si rassomigliassero fra loro nella forma. Molto si disputò intorno l'etimologia del nome «Bragola», ed altre varianti. Il Dandolo lo fa provenire da Bragola, provincia dell'Oriente, donde si trasportarono a Venezia alcune reliquie del Precursore. Questo cronista, parlando del vescovo olivolense Domenico IV Talonico, dice chiaramente: «qui de provincia vocata Bragula reliquias S. Joannis Baptistae deduxit, et in ecclesia, quam sui progenitores sub Sancti vocabulo fabricaverunt, cum devotione deposuit, quae vocata est hac de causa S. Johannis Bragulae». Altri, contraddicendo tal fatto, voglion che «Bragola» derivi dal «bragolare», o pescare, che qui anticamente costumavasi. Altri dai mercati che qui si tenevano detti «bragole», in greco «agorà». Altri dalla voce orientale «b'ragal», significante due uomini, o due eroi (Castore e Polluce). Altri finalmente, ritenendo come forma primitiva non «bragola», ma «bragora», dalle due voci «brago» (melma o fango) e «gora» (canale d'acque stagnanti), quasi si avesse voluto indicare in tal guisa l'antica condizione del terreno fangoso, ed intersecato dall'acque. La chiesa di S. Giovanni Battista dicesi fondata da S. Magno nel secolo VII. Quindi venne rinnovata nell'817 da Giovanni Talonico, e rifabbricata due volte, la prima nel 1178, e la seconda nel 1475. Anche in tempi posteriori, e specialmente nel 1728, ebbe nuovi ristauri. L'istituzione della parrocchia rimonta ad epoca lontana. Nel 1810 le si aggiunsero alcune frazioni tolte a quella di S. Martino, ed una parte della soppressa parrocchia di S. Antonino. Narra la cronaca Barba che il doge Domenico Michiel, il quale governò la Repubblica dall'anno 1118 al 1129, «fece edificare uno bel palazzo con un zardin in contrà de S. Zuane in Bragola in lo qual molte fiate se andava a trastullar». Ed un'altra cronaca aggiunge che, quando egli nel 1129 rinunziò al principato, portossi ad abitare in questo palazzo medesimo. Pel pontefice Paolo II, nato in questa parrocchia, vedi Papa (Sottoportico e Corte del). Il 17 febbraio 1756 M. V. si diede in «Campo della Bragola» una gran caccia di tori, nella qual occasione si ammirarono due voli fatti da due funambule, l'una andando all'insù, e l'altra all'ingiù del campanile. Vedi i «Notatori» di Pietro Gradenigo da S. Giustina al Civico Museo. Barba fruttarol (Rio terrà di) ai SS. Apostoli. Leggesi in una cronaca citata dal Gallicciolli: «Il D. Angelo Partecipatio» (chiamato anche Badoaro) «teneva ragione et il foro a S. Apostoli, e teneva le barche armate là dietro a quel cantone che salta fuori verso il ponte, e la riva comune che in quel tempo riceveva le barche di Murano, Torcello, Mazorbo, et Istria, ora è il traghetto di Murano a S. Canziano; e teneva questo suo palazzo fino al rio che ora si dice di Barba, e si chiamava Rio Baduario». Quasi delle medesime parole usa Nicolò Zeno («Dell'Origine dei Barbari»). Da ciò il Tentori ed altri arguirono che la voce «Barba» non sia altro che una corruzione di «Baduario». Ma si deve osservare, che la cronaca citata dal Gallicciolli ed il Zeno non dicono che la voce «Baduario» abbiasi convertito in «Barba», ma soltanto che quel rivo, il quale un tempo chiamavasi «Baduario», chiamossi poscia «del Barba». Inoltre, ammessa anche tale metamorfosi, come spiegare quell'aggiunto «fruttarol»? Crediamo pertanto, che il «Ponte di Barba Fruttarol» (ora distrutto), e per esso il rivo sottoposto (ora interrato), abbiano preso il nome da un «Barba», che qui esercitò il mestiere del fruttaiuolo, tanto più che in un catalogo delle meretrici di Venezia, pubblicato nel secolo XVI, troviamo un'«Anzola Trevisan» domiciliata «in rio da drio el barba fruttarol». Del resto anche il «Ponte del Bonomo» (poscia «delle Pignatte») in «Calle dei Fabbri» a S. Luca denominossi da un «Bonomo di Bonomo» fruttajuolo. E lo stesso avvenne, come dimostreremo, della «Calle del Passamonte» ai «Tre Ponti», nonché della «Calle», e «Calle e Ponte Zancana» a S. Marziale. Scrive la cronaca del Savina: «A questo tempo nel mese di luglio» (1587) «s'è fatto un ponte nuovo et disfatto il vecchio nel luogo del rio del Barba Fruttarolo ai SS. Apostoli, et non si farà più quella volta lunga, et questo per comodità del serenissimo Principe Cicogna che nel giorno de XVIII d'Agosto, suo annuale, se ne va alla chiesa dei Crocichieri ad udir messa». Nel 1620 Almorò Michiel q. Polo miseramente annegava in «Rio di Barba Fruttarol», ritornando di sera alla propria abitazione. Barbaria delle tole. Vedi Tole. Beccarie (Campiello ecc.) a S. Giobbe. Vedi Beccherie. Beccarie (Calle, Campo, Ponte, Rio, Calle delle) a Rialto. Sorge in questo campo il palazzo Querini, detto la «Ca' Mazor», o «Ca' Granda» che, dopo la congiura Tiepolo-Querina, avvenuta nel l310, venne demolito per due terzi spettanti a Marco e Pietro Querini congiurati, e lasciato integro per un altro terzo posseduto da Giovanni Querini innocente. Alcune cronache però dicono invece, che, non rinvenendosi allora gli strumenti divisionali, ed essendovi in detta casa alcune parti comuni, e quindi indivisibili, il governo lasciolla in piedi come stava, ma confiscò i due terzi di Marco e Pietro Querini, e comperò il terzo di Giovanni. Egli è certo che qui nel 1339 si collocarono le pubbliche beccherie di Rialto, situate per lo innanzi presso S. Giovanni Elemosinario ove poscia fu la «Drapperia». Di qua il nome di «Stallone», che conserva il fabbricato. Né vuolsi pretermettere che esso, sebbene per poco, tornò nell'assedio di Venezia del 1849 a servire di pubblico macello essendo quello di S. Giobbe esposto al grandinare delle palle. La provvigione delle carni commestibili non fu mai trascurata dai Veneziani, riscontrandosi fino dagli antichi tempi l'istituzione d'un uffizio di tre nobili, detti «Sopra le Beccarie e pubblici Macelli», il cui capitolare registra le deliberazioni emanate sopra questa materia cominciando dal 1249. Continuò esso con varietà di leggi fino al 1545, nel qual tempo una straordinaria gravezza imposta dal re dei Romani sopra l'estrazione degli animali bovini produsse una gran carestia. Decretò allora il Senato che fossero eletti due individui del proprio corpo col titolo di «Provveditori sopra le Beccarie», e nel 1678 ve ne aggiunse un terzo. Vedi Tentori («Saggio sulla Storia Civile ecc. della Repubblica di Venezia»). I Beccai si radunavano in divota confraternita, sotto il patrocinio di S. Matteo, nella chiesa che in Rialto sorgeva sacra a questo santo, della quale, per breve di Eugenio IV, avevano il diritto di eleggere il pievano. Essi mascherati all'Europea, all'Asiatica, all'Africana, ed all'Americana, segnalavansi specialmente nelle cacce dei «tori molai», solite darsi l'ultima domenica di carnovale nella corte del Palazzo Ducale. Ed in tale giornata godevano il privilegio, per la fedeltà dimostrata alla Repubblica, di montare in numero di 20 la guardia del palazzo medesimo dall'ora di terza finché terminavano i pubblici spettacoli. Il «Rio delle Beccarie» a Rialto era detto nel secolo XII «Magadesso» dalla famiglia Magadesia, o d'Arbore, e nel secolo XIV di «Ca' Bellegno» parimenti da una famiglia di questo cognome. La «Calle delle Beccarie», costeggiante lo «Stallone», si chiama pur anche «Panateria» dalle botteghe di pane, che, fino da tempo antico, erano colà stabilite, poiché in una deliberazione del M.C. dell'anno 1341 si legge: «quod Panataria ubi venditur panis in Rivoalto reducatur ad latus muri Beccariae novae per modum quod melius videbitur». Anche il Sabellico («De Situ Urbis») chiama queste botteghe «paniceas tabernas quae macello adhaerent». Ed esse continuarono a sussistere nel medesimo sito fino al cadere della Repubblica, dicendo Francesco Todeschini nel volume II della sua opera manoscritta, estesa nel 1774 col titolo: «Della Dignità dei Procuratori di S. Marco» (Cod. 613-614, Classe VII della Marciana): «Anche nell'isola di Rialto fa uso l'arte dei Pistori, per vendita di pane, di alcune botteghe in fianco della Beccaria, quale si asserisce che fosse palazzo dei Querini congiunti di Bajamonte Tiepolo, e suoi collegati nelle nota congiura». Dal medesimo autore ricaviamo che queste botteghe nel secolo passato erano in numero di 25. Bella Vienna (Campo, Calle della) a Rialto. Da un Caffè alla «Bella Vienna» che qui esisteva, e che, aperto nel principio del secolo presente, ebbe, come si dice, quest'insegna per onorare Vienna capitale dell'impero Austriaco. Bembo detta del Malcanton (Fondamenta) a S. Margherita. Per la prima denominazione vedi l'articolo antecedente; per la seconda Malcanton (Fondamenta, ecc.). Bernardo (Ramo, Calle, Ponte, Fondamenta) a Sant'Agostino. Torreggia presso questo Ponte un palazzo archiacuto che apparteneva anticamente alla patrizia famiglia Bernardo, e che poscia passò in proprietà dei Celsi. La famiglia Bernardo venne fra noi da Roma, oppure dalla Trivigiana, in epoca sì remota da produrre tribuni, e sempre dimostrossi benemerita dello Stato. Era un Francesco Bernardo nel 1303 capitano di grossa nave armata contro Andronico imperatore di Costantinopoli. Un altro Francesco, nel 1545, mercanteggiando in Albione, giunse a conchiudere la pace fra Francesco I re di Francia, ed Enrico VIII d'Inghilterra. Creato perciò cavaliere da entrambi, e largito d'annuale stipendio, vi rinunziò tostoché fu di ritorno in patria, a servizio della quale sostenne poscia importanti impieghi. La famiglia Bernardo ebbe pure altri soggetti che levarono bel grido di sé specialmente nelle guerre contro gl'Infedeli. Né qui va taciuto di quel Pietro ben noto per la singolarità del suo testamento, fatto il 30 ottobre 1515. Ordinava egli che, appena morto, venisse lavato nell'aceto più squisito, e quindi unto con muschio, pel valsente di 40 ducati, da tre medici dei più famigerati, ai quali si dessero in compenso tre zecchini belli e ruspi per ciascheduno; che fosse deposto con aloè ed altri aromi in una cassa di piombo, ove potesse giacere comodamente, la qual cassa si richiudesse in altra grossissima di cipresso, così bene serrata ed impeciata da non potersi aprire se non rompendola; che venisse collocato in un'arca di marmo del valore di 600 ducati, in fronte della quale dovessero scolpirsi otto esametri, contenenti le di lui gesta in carattere maiuscolo da leggersi alla distanza di 25 piedi, col premio al poeta d'un zecchino ogni due versi; che sopra l'arca si scolpissero il Padre Eterno, ed egli, Pietro Bernardo, genuflesso, di forme così grandi da sembrare a venticinque piedi di distanza un uomo d'alta statura; che finalmente si celebrassero in un libro di ottocento versi le glorie della sua famiglia, e si componessero sette salmi ad imitazione dei Davidici con altre orazioni, da cantarsi ogni prima domenica del mese da venti frati, al rompere dell'alba, innanzi al di lui sepolcro. Queste prescrizioni non furono scrupolosamente eseguite. Il Bernardo morì nel 1538, e venti anni dopo gli si innalzò in chiesa dei Frari un elegante monumento lombardesco, che si attribuisce ad Alessandro Leopardi. La famiglia Bernardo, che si estinse nel 1868, diede il nome ad altri luoghi della città. Bernardo (Calle e Ramo, Campiello, Ramo) a S. Apollinare. Leggasi «Bernardi» dal Palazzo che era posseduto dalla cittadinesca famiglia di questo cognome, la quale anticamente mercanteggiava in colori prima alla «Giudecca», e poscia in Venezia presso la «Pescheria» di Rialto, all'insegna della Zucca. Chi abbia fondato esso palazzo s'ignora. Sappiamo soltanto che nel 1651 apparteneva a «Giacomo Piatti q. Vincenzo», cittadino Veneto, e che il 14 aprile di quell'anno venne acquistato da «Bortolo Bellotto q. Placido». Da questa famiglia, collo strumento 4 marzo 1694, in atti Alessandro Bronzini, passò in «Pietro e Simeone Bernardi del q. Alessandro». Un Bartolammeo, figlio dell'anzidetto Pietro Bernardi e di Francesca Morana, fu approvato il 7 luglio 1743 cittadino originario, ed un Alessandro, nato dal suddetto Bartolammeo e da Caterina Astori, ebbe il 22 gennaio 1780 M. V. insieme ai discendenti, il diploma comitale. Accadde poscia che tre figliuoli del q. conte Alessandro, cioè Francesco, Giuseppe ed Ignazio, lasciassero, ciascheduno per una terza parte, andare il loro palazzo all'asta pubblica per imposte non soddisfatte, e che queste tre parti venissero comperate negli anni 1809 e 1810 da Pietro Bossi, avverandosi poi nel 20 aprile 1833, atti Antonio Santibusca, per parte di Paolina Bossi-Boldrin, figlia di Pietro, l'acquisto anche della quarta parte, rimasta in proprietà del conte Bartolammeo, altro figlio d'Alessandro. Senonché la contessa Giovanna Bernardi Graziosi del q. Alessandro ricomperava da Paolina Bossi-Boldrin, mediante il contratto 24 marzo 1841 a' rogiti Vito Pisani, il palazzo de' suoi antenati per lasciarlo ai nostri giorni, con testamento, a Pietro Naratovich, che vi fa fiorire la propria tipografia. Bianca Cappello (Calle). Vedi Storto (Ponte). Bocca de Piazza. Vedi Piazza (Bocca di). Boldù (Calle) a S. Felice. Il palazzo, a cui questa strada conduce, e che prospetta «il Canal Grande», apparteneva alla patrizia famiglia Ghisi, ma nel secolo trascorso passò, per via di matrimonio, nei Boldù. Qui abitarono nel 1504 Consalvo, gentiluomo spagnolo, castellano della rocca di Forlì; nel 1523 Giovanni Orsini, condottiere della Repubblica; e nel 1524 G. Francesco Gonzaga detto da Lucera. La famiglia Boldù, di cui trovasi in altre strade memoria, venne da Conegliano nell'800, e, per testimonianza del Malfatti, diede «uomini discreti, sapienti e molto cattolici», che fecero edificare nel 1000 la chiesa di S. Samuele, e poscia ristaurare quella di San Giacomo. Un Leonardo Boldù fu nel 1473 valoroso capitano contro i Turchi. Un Antonio, cavaliere e senatore illustre, venne spedito nel 1490 ambasciatore all'imperatore Federico cui pacificò con Mattia re d'Ungheria. Il medesimo, nel 1493, essendo «Avogador di Comun», accusò in Senato Domenico Bollani, suo collega, perché aveva ricevuto danari da alcuni rei, e nel 1496 andò ambasciatore al re di Spagna, ma, colto da malattia, dovette soggiacere, viaggio facendo, al comune destino. Un Giacomo Boldù, dotato di grande eloquenza, recitò nel 1504 un'orazione funebre in morte del patriarca Tommaso Donato, e scrisse epistole, ed altre orazioni. Un Marcantonio, religioso Crocifero, compilò nel secolo medesimo la storia del proprio Ordine. Un Filippo, per ultimo, difese nel 1646 con mirabil valore il posto delle Cisterne in Candia, ripulsandone i Turchi, finché, per ordine del generale, dovette abbandonarlo. La linea dei Boldù da S. Felice si estinse in un Giuseppe, figlio di Francesco e d'Anna Giovanelli, nato nel 1793, e morto nel 1837, il quale con molto encomio sostenne per vari anni la carica di podestà di Venezia. Boldù (Calle) a S. Pantaleone. Vedi Case nuove. Boldù (Calle) a S. Maria Nova. Braccio nudo (Corte) a S. Giobbe. E' denominazione antica, e dipende forse dall'insegna di qualche prossima bottega, seppure «Braccionudo» non è cognome di famiglia, come «Braccioduro», «Bracciodoro», «Braccioforte». Bragadin o Carabba (Ramo). Vedi Brandolin. Bragadin o Pinelli (Calle) a S. Maria Formosa. In questa Calle, che conduce al «Ponte Storto» o «Pinelli», verso i SS. Giovanni e Paolo, avevano casa propria nel 1661 i «N. U. Lunardo e Girolamo Bragadin». Del suddetto Girolamo troviamo nel Codice 183, Classe VII della Marciana, alla rubrica: «Casi Infelici, Fini e Morti de Nob. Ven.» i seguenti cenni: «1669. Girolamo Bragadin da S. Trovaso, hora dal Ponte Storto ai SS. Giovanni e Paolo, fu terribile Avogador di Comun, Savio del Consegio; morse paralitico, stato in letto perduto e scemo per anni 2». E più sotto «16... Gabriel Bragadin q. Girolamo sud. fu ferito in campo a S. M. Formosa da D. ... Vico cittadin per causa di donne da pistolese, per la qual ferita morse dopo pochi giorni». La seconda denominazione proviene dalla tipografia ducale Pinelli, che si trasportò nel palazzo Bragadin il 17 giugno 1752, mentre prima fioriva in «Calle del Mondo Novo». Il tipografo Maffeo Pinelli ha in chiesa di S. Maria Formosa un'epigrafe dettata dallo abate Morelli. Egli aveva raccolto una biblioteca delle più celebri, contenente le opere più rare in qualsivoglia scienza, ed in qualsivoglia lingua, manoscritti preziosissimi, e la collezione dei libri dei più celebri stampatori di ciaschedun secolo. «Sembrava impossibile», dice il Mutinelli («Lessico Veneto»), come «un uomo di modesta fortuna avesse potuto unire tanta e così ricca suppellettile libraria». Nel locale medesimo ebbero sede la tipografia dell'Andreola sotto il primo governo Austriaco; quindi quella della «Gazzetta Uffiziale di Venezia», e finalmente, dal 1866, la tipografia Merlo coll'insegna dell'Ancora. Brandolin o Carabba (Ramo) a S. Marina. Leggasi, come nelle tavole topografiche del Paganuzzi e del Quadri, «Ramo Bragadin» o «Carabba», poiché il palazzo, a cui questa Calle conduce, non apparteneva ai Brandolin, ma ai Bragadin, l'arma dei quali, consistente in una croce, sta sculta sopra la facciata archiacuta che guarda il rivo del «Teatro Malibran», e sopra l'ingresso di stile meno antico, dalla parte di terra. Questo palazzo, che probabilmente fu eretto dai Bragadin, trovandosi un «Maffio Bragadin» domiciliato a S. Marina nel 1362, venne rassettato, secondo il Vasari, dall'architetto Sammicheli. L'ultimo della linea Bragadin da S. Marina fu quel G. Matteo, che in sua vita venne imputato d'aver tentato d'avvelenare il proprio fratello Daniele cav. e proc. di S. Marco, e che, colpito da apoplesia, mentre era uscito da una festa da ballo, fu soccorso dal celebre avventuriere Giacomo Casanova, per cui considerollo sempre qual figlio, ed in più occasioni lo protesse. Venuto a morte nel 1767, il di lui palazzo passò ne' suoi parenti Bragadin d'altra linea, ed anche quando venne venduto, con istrumento 10 gennaio 1807, a Servadio Carabba q. Francesco, apparteneva in parte ai «N. N. U. U. consorti Bragadin». La famiglia Carabba ebbe origine nell'Algeria donde passò in Calabria, e quindi a Venezia. Il palazzo Bragadin a S. Marina, posseduto attualmente dai conti Papadopoli, fu da essi recentemente ristaurato. Dei Bragadin dicemmo più addietro. Vedi Bragadin (Calle). Briani (Corte) a S. Giovanni Nuovo. In «Corte Briani», a S. Giovanni Nuovo, giusta la Descrizione della contrada pel 1661, possedeva varii stabili il «N. U. Francesco Briani». La famiglia a cui apparteneva, aveva pure in San Giovanni Nuovo un proprio sepolcro. Espulsa da Bergamo per le civili discordie, essa riparossi in tempi molto antichi a Venezia, ove tosto restò ammessa al Consiglio. Fino dal 1161 un Raffaele Briani, cavaliere, fu capitano delle Venete truppe contro i Bolognesi. Molto più tardi, cioè nel 1651, un Giovanni trovossi alla battaglia navale contro i Turchi presso Nixia e Paros, e nel 1657, provveditore straordinario e rettore di Cattaro, acquistò lode nella difesa di quella città. I Briani possedevano altri stabili presso il «Campazzo», e la «Calle Briani» ai SS. Ermagora e Fortunato, come, si conosce, oltreché dalla Descrizione della contrada pel 1661, dallo stemma gentilizio sculto sul muro, stabili che ritennero in loro proprietà anche mancati al patriziato, il che avvenne nel 1679. In parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato diedero il nome eziandio alla «Calle Briani», non lungi dalla «Piscina del Cristo». Briani (Calle) all'Angelo Raffaele. Leggasi «Ariani», come negli estimi, dal palazzo fondato dalla famiglia Ariani, la quale nel 1535 notificò una «casa da statio sulla Fondamenta di S. Rafael» con altre «nella callesella». Che questo palazzo appartenesse alla suddetta famiglia, oltre che dal nome antico della prossima via, soltanto modernamente corrotto, è approvato dallo stemma sculto replicatamente sul prospetto, ed eguale in tutto a quello che si scorge sul pozzo in «Campo dell'Angelo Raffaele» con relativa iscrizione recante il nome di Marco Arian, e l'anno 1349, nonché a quello che sta sopra una tomba degli Ariani nel chiostro dei Carmini. Andò errato quindi il Zanotto tanto nell'opera «Venezia e le sue Lagune», attribuendo la fondazione del palazzo medesimo ai Foscari, quanto nella sua «Nuovissima Guida di Venezia», attribuendola ai Guoro. Dicono le cronache che il palazzo Arian sorse nel secolo IX, e che la famiglia fondatrice, venuta dall'Istria, o, secondo altri, dalla Capitanata, possedeva nei tempi antichi quasi tutta la contrada dell'Angelo Raffaele, della quale fondò, od almeno rinnovò, anche la chiesa, ove, poco fuori del coro, aveva un altro sepolcro. Essa rifabbricò nella prima metà del secolo XIV il palazzo, ornandolo della attuale facciata, notabile specialmente pel magnifico finestrato centrale. Anticamente era del Consiglio, ma poscia ne rimase esclusa, il che, secondo una cronaca, avvenne per debiti, fraudolenti forse, commessi da un Antonio q. Nicolò, morto nel 1363. Questi è quell'Antonio Ariani, il quale, con testamento 1. luglio 1361 in atti di prete Marco Rana, ordinò che nessuno de' suoi figli dovesse sposare donne patrizie, e nessuna delle sue figlie uomini patrizi. Con tuttociò Marco, uno de' figli del medesimo, tentò di riacquistare gli aviti privilegi, facendo col fratello Bon grandi largizioni alla Repubblica nella guerra di Chioggia, e tanto fu il cordoglio di non poter sortire il proprio intento che, abbandonata la moglie, vestì l'abito da frate in Ferrara. Altri inutili tentativi fece allo scopo medesimo nel 1465 questa famiglia, la quale fino alla sua estinzione, avvenuta nel 1650, restò fra i cittadini. In nuovi abbagli incorsero gli scrittori investigando quali fossero i successivi proprietarii del palazzo di cui facciamo parola. Il Zanotto, che, come abbiamo detto, lo fa nella sua «Nuovissima Guida», fondato dai Guoro, vorrebbe che nel 1660 vi succedessero, come proprietarii, i Minotto, e che dei medesimi sia lo stemma sculto sul prospetto. A ciò si risponde che, quantunque lo stemma dei Minotto, guardato sul marmo e senza colori, possa confondersi collo stemma degli Ariani, quello che scorgesi sulla facciata del palazzo non appare rimesso, ma contemporaneo alla fabbrica, cioè del secolo XIV. Resterebbe che i Minotto, senza essere gli autori dello stemma, subentrassero tuttavia nella proprietà dell'edificio, ed anche noi a bella prima eravamo di questa credenza, sapendo che una casa Minotto esisteva sulla «Fondamenta dell'Angelo Raffaele». Senonché il ch. dott. Luigi Scoffo ci rese avvisati per iscritto che i Minotto abitavano in altro vicino palazzotto al N. A. 2365. Ci avvisò inoltre che il palazzo Arian nel secolo trascorso veniva posseduto dai Pasqualigo. Ed ecco che noi, ricorsi all'Archivio Notarile, trovammo il testamento di Giacomo Arian q. Marco, ultimo della famiglia, testamento che ci fu il filo di Arianna per uscire dal laberinto. Giacomo Arian con questo testamento, fatto l'8 novembre 1630, e presentato il 2 luglio 1631 al notajo Bernardo Malcavazza, dopo aver ordinato di venir sepolto nella sua arca, «che ha sopra l'arma Arian», in convento dei Carmini, e disposto d'alcuni legati, lascia usufruttuaria di tutti i suoi averi la propria madre, la quale era della famiglia Pasqualigo, e quindi erede il N. U. Vincenzo Pasqualigo q. Pietro. Poscia v'aggiunse due codicilli, in atti Andrea Calzavara, l'uno colla data del 16 agosto 1643, e l'altro colla data del 30 novembre 1647, con cui, riferendosi al suo testamento del 1630, fa qualch'altro legato, dichiara d'aver sopra la sua «casa grande di S. Raffaele» un debito di quattrocento ducati, spesi dal q. ecc. Bernardo Grimani per ristauri, e conferma erede il N. U. Vincenzo Pasqualigo, eleggendo lui e la madre suoi commissarii. Così il testamento, come i due codicilli, vennero pubblicati il 15 novembre 1650, «viso cadavere». Da ciò si conosce chiaramente che, senza altri trapassi intermedii, il palazzo all'Angelo Raffaele passò dagli Ariani nei Pasqualigo. Perciò nello estimo del 1661 se lo vede posseduto, ed abitato dal «N. U. Vincenzo Pasqualigo»; nell'estimo del 1712 posseduto dal «N. U. Pietro Paqualigo fu de s. Vincenzo» e fratelli, ma appigionato coll'orto al «Serenissimo di Guastalla» per annui ducati 360; e finalmente nell'estimo del 1740 posseduto dagli stessi Pietro e fratelli Pasqualigo, ma allora da appigionarsi. I Pasqualigo continuarono a possederlo finché Laura Pasqualigo del fu Giorgio, vedova di Vincenzo Gradenigo, con suo testamento esteso il 20 giugno 1768 e presentato il 19 febbraio 1769, al notajo Domenico Zuccoli, lo lasciò ai fratelli «rev. Antonio e Carlo Pasinetti q. Francesco». I loro discendenti ne vendettero un piano a Lucia Cicogna, ex monaca Benedettina, che vi tenne per varii anni collegio di educazione femminile. Costei fece dipingere sopra i tavolati del vestibolo l'arma Cicogna, per la qual cosa il Selvatico ed altri chiamarono erroneamente l'edificio «palazzo Cicogna». Dopo la Cicogna, decessa nel 1849, la parte a lei spettante passò in varie altre mani, e quindi comperata dal Comune di Venezia, che finì col comperare anche l'altra parte rimasta ai Pasinetti, per uso di pubbliche scuole. Baccalà (Fondamenta del) a S. Gregorio. «Questa fondamenta», scrive il continuatore del Berlan, «prende certamente il nome dai magazzini ripieni del noto pesce seccato, che in buon dato ci viene d'oltremare». Ma la cosa passa in modo diverso, poiché negli Estimi, e nelle antiche Piante topografiche, troviamo la Fondamenta suddetta, insieme al prossimo Ponte, ora dei «Saloni», appellata del «Cabalà». Più d'una famiglia di tale cognome avevamo in Venezia. Sopra questa «Fondamenta» esistono i magazzini del sale, che, secondo il Sanudo, nei «Diari», vennero ristaurati per decreto 20 ottobre 1531, stando allora per rovinarne il colmo. Badoer (Ramo, Sottoportico, Corte) ai Frari. La famiglia Badoera, o Badoara, detta anche Partecipazia, venne, secondo i più, dall'Ungheria a Pavia, e quindi a Venezia nei primissimi tempi, ove esercitò il tribunato, e fu una delle dodici case in cui da principio fu stabilito il corpo della patrizia nobiltà. Essa conta sette dogi, i quali si successero quasi l'uno all'altro; anzi, giusta una cronaca, tentò di metter parte che niuno potesse essere eletto doge se non fosse stato de suo sangue. Questa famiglia edificò varie chiese di Venezia, ed acquistò molte ricchezze, sapendosi di un Marino Badoer che, in virtù del matrimonio contratto nel secolo XII con Balzanella figlia di Pietro signore di Peraga, ebbe in dote Peraga, Mirano, Strà, Morelle, S. Bruson, ed altre terre della Marca Trivigiana. I Badoeri si gloriano d'un Beato, d'un cardinale di Santa Chiesa, nonché di vari generali, procuratori ed ambasciatori. Un ramo dei medesimi abitava in parrocchia di «S. Tomà», e precisamente presso la chiesa dei Frari, nella «Calle della Passion», dietro la quale esistono il «Ramo», ed il «Sottoportico» e «Corte Badoer». Perciò la Descrizione della Contrada di «S. Tomà» pel 1713 pone in questo punto la «casa propria di Zuane Badoer fo de ser Pietro», ed anche il «Libro d'Oro» del 1714 annovera un ramo dei Badoer domiciliato «ai Frari, in Calle della Passion». Questa casa ha la facciata sul «Campo dei Frari» coll'arma gentilizia della famiglia. Il ramo accennato dei Badoer concorse all'erezione del prospetto della chiesa di «S. Tomà», incominciato nel 1666, e compiuto nel 1670. Vedi Pivoto: «Vetera ac nova ecclesiae S. Thomae Apostoli Monumenta». Baffo (Ramo) a S. Ternita. Appellasi negli Estimi «Ramo di Ca' Baffo» dalla patrizia famiglia di questo cognome. Un «Lorenzo Baffo de m. Alvise» da S. Ternita trovasi nel ruolo dei confratelli patrizii in una delle «Mariegole» della scuola Grande di S. Maria della Misericordia, che incomincia col 1308, ed arriva al 1499. E nei Necrologi Sanitari: «Adì 17 Xbrio 1593. Il chl.mo s. Mateo Bafo fo del chl.mo s. Zan Alvise, de ani 25, da eticho, mesi 6. — S. Ternita». I Baffo vennero da Parma a Mestre, e poscia a Venezia nell'827. Edificarono nel 1034 la chiesa, ora distrutta, di S. Secondo in isola, e nel 1222 quella di S. Maria Maddalena, nella qual contrada vuolsi che possedessero un castello, detto Castel Baffo. Rimasti nel 1297 del Consiglio, produssero uomini distinti. Una donzella di questa casa, fatta col padre prigioniera dei Turchi, divenne moglie di Amurat III, e nel 1568 madre di Maometto III. Esercitò costei un lungo dominio sopra Amurat, e conservollo sopra Maometto, né lo perdette che sotto Acmet, il quale la relegò nel vecchio serraglio. Un Lodovico Baffo, valoroso Sopracomito di galera, operò nel 1650 azioni ardite contro i Turchi, si diportò bene nella conquista delle fortezze di S. Todero e Turlulù nel regno di Candia, nel 1656 trovossi alla battaglia dei Dardanelli, e nel 1657, come direttore della galeazza capitana Morosina, intervenne alla vittoria sopra le galere barbaresche a Scio. Di lui congiunto fu quel Giorgio, nato nel 1694, e morto nel 1768, che va celebre fra noi per le sue poesie in dialetto veneziano. Con Giorgio andò estinta la famiglia. Bagatìn (Calle, Rio Terrà del) a S. Canciano. Questo rivo, prima del suo interramento, avvenuto, secondo il Codice 1603, Classe VII della Marciana, nel gennaio 1773 M. V., era attraversato da un ponte chiamato «del Bagatin» per un fabbro di tale cognome che qui stanziava. Infatti nell'Anagrafi ordinata dai Provveditori alla Sanità pel 1642 troviamo un «Agostin Bagatin» fabbro da S. Canciano. Ed una «Caterina q. Tommaso di Michieli», consorte «di Agostin q. Pietro Lazzari detto Bagatin», fabbro a S. Canciano «al pontesello di legno», fece il proprio testamento in atti Pietro Bracchi il 1° dicembre del medesimo anno 1642, e morì il giorno 5 successivo. Baghei (Calle dei) a S. Nicolò. È chiamata nella Descrizione della Contrada di S. Nicolò pel 1740 «Calle delle Baghelle», e colà presso in quell'anno scorgesi domiciliata un'«Anzola Baghella». Un «Gasparo Baghello» concorse nel 1700 alla dignità di Doge o Gastaldo dei «Nicoloti», che poteva venir scelto soltanto fra gli abitanti delle due parrocchie di S. Nicolò e dell'Angelo Raffaele. Ora la «Calle dei Baghei» è chiusa. Baglioni (Calle). Vedi Muti. Balanze (Calle delle) detta di Mezzo, a S. Luca. Vi si fabbricavano bilancie o stadere, poiché scorgesi che nel 1661 un Matteo del q. Andrea «staderer» avea bottega in «Calle de Mezzo», presso il «Campo di S. Luca». Gli «stadereri», secondo la Statistica del 1773, erano uniti all'arte dei fabbri, e contavano in Venezia nove botteghe con altrettanti capi maestri, undici lavoranti, e due garzoni. Più tardi però dipendevano dai Merciai, come appare dal primo volume delle «Inscrizioni Veneziane» del cav. Cicogna, ove si cita il manoscritto lasciato da Apollonio dal Senno sopra le Arti che al cadere della Repubblica fiorivano in Venezia. Per la seconda denominazione vedi Mezzo (Calle di) a S. Apollinare. Balastro (Calle, Ramo, Sottoportico, Campiello) a S. Basilio. Bene a ragione scrive il Cicogna doversi leggere «Balastro», e non «Balestra», mentre qui abitava la patrizia famiglia Balastro, anticamente chiamata Barastro, venuta da Torcello. Essa, giusta le cronache, produsse «tribuni antiqui, savii, piasevoli e di grande ardimento e vigore; non molto alti di persona, ma molto grossi». Sembra che questa famiglia abitasse a S. Basilio fino dal secolo XIII, trovandosi che «Zulian Balastro», il quale nel 1211 ebbe una cavalleria in Candia, era del Sestiere di Dorsoduro. Vi abitava poi senza dubbio nel 1379, avendo allora un «Balduin Balastro» di quella contrada fatto prestiti alla Repubblica. Egli è quel medesimo che nel 1356 venne spedito ambasciatore ad Alberto II duca d'Austria per distorlo dall'inferire danni alla Repubblica. I Balastro, ch'ebbero pure un arcivescovo di Durazzo, andarono estinti il 20 gennaio 1534 m. v. in un «Nicolò fo de m. Zuane», podestà di Bergamo, che nel 1514 aveva notificato ai X Savii sopra le Decime la sua «casa da statio», ed altre diecisette case contigue «in contrà de S. Basegio». Balà (Fondamenta de Ca'). Vedi Baccalà. Balbi (Fondamenta) a S. Marcuola. Vedi Due ponti. Baldàn (Calle) a S. Simeon Grande. Sta scritto nei Necrologi Sanitarii: «A dì 23 Novembrio 1599. Catt.a fia de s. Lorenzo Baldan simador de mesi 2, da variole, g.ni 15 — S. Simon Grando». Notisi che la «Calle Baldan» sbocca sulla «Fondamenta Rio Marin», e che in quei contorni molti «simadori», o «cimadori» da panni, abitavano, i quali pure sulla Fondamenta suddetta avevano la loro scuola di divozione sacra a S. Nicolò. Baldini (Corte) a S. Marta. «I NN. UU. frat.i Lombardo» notificarono nel 1740 di possedere una casa in parrocchia di S. Nicolò, appigionata a «Camilla Baldina». A tale parrocchia la «Corte Baldini» era anticamente soggetta. Balleràn (Calle) a S. Giobbe. I Necrologi Sanitarii annoverano fra i decessi il 28 luglio 1614 in parrocchia di S. Geremia, nel cui raggio giurisdizionale comprendevasi anche anticamente il circondario di S. Giobbe, «Thomio del q.m Anzolo Baleran de anni 44 da fievre maligna, g.ni 8, medico il Peranda». Balloni (Calle, Sottoportico, Corte dei) a S. Marco. Nelle Notifiche del 1566 vediamo appellate queste località «Calle» e «Corte del Balloner» da un fabbricatore, o venditore di «balloni» (palloni) che qui anticamente stanziava. Ballotte (Calle, Ponte delle) a S. Salvatore. Ritroviamo nelle «Raspe» dell'Avogaria, che una «Maria a Ballotis», da S. Salvatore, ottenne il 10 aprile 1424 l'annullamento d'una condanna inflittale, con sentenza 18 marzo 1422, dal Magistrato del Mobile. Costei poteva essere «dalle Ballotte» di cognome, oppure venir così chiamata perché fabbricasse, o vendesse le «ballotte», o pallottole, inservienti alle votazioni. Riporta Leonico Goldioni, anagramma di Nicolò Doglioni, nelle sue «Cose Notabili et Maravigliose della città di Venetia», che nel 1283 le «ballotte pel Maggior Consiglio» si facevano di cera, ma perché alcuna ne restava attaccata ai bossoli, si ordinò che si facessero di pezza di lino. Il Gallicciolli («Memorie Venete») ritrovò poi scritto, che le monache di S. Girolamo ebbero, nel 1421, 100 ducati, e nel 1481 altri 50, e ciò per fabbricar le «ballotte» ad uso del Maggior Consiglio. A piedi del «Ponte delle Ballotte», sul muro d'una casa, scorgesi l'arma Tron a musaico, con iscrizione, donde s'impara che quella casa venne lasciata nel 1523 da Antonio Tron procurator di S. Marco alla scuola dei Mercanti. Banchetto (Sottoportico e Corte, Ramo Corte del) a «S. Giuliano». E' probabile che il nome dipenda da qualche banchetto, o tavola, ove si vendessero mercatanzie, o commestibili, poiché nella «Nota degli Abitanti della Contrada di S. Giuliano fatta per commissione pubblica, et eseguita dal R.o D. Gio Batta. Zonta, Sac.e titolato e Sag.no» nel 1795, leggiamo che in «Campo della Guerra», ove hanno ingresso le strade di cui si parla, stanziava «Andrea Palazzi banchettier». In «Corte del Banchetto» a S. Giuliano, nella casa che portava il civico numero 366, ed ora porta l'anagrafico 506, abitava Giacomo Surian, celebre medico ariminese. Sopra il lato di questa casa che guarda la «Corte del Forno» vedesi tuttora scolpito lo stemma dei Surian, stemma ripetuto eziandio sulla facciata della casa medesima respiciente il «Rio della Guerra», col nome «Jacobus Surianus», con quelli d'«Aristotile» e «Galeno», e col verso: «Rura, domus, nummi, felix hinc gloria fluxit». Giacomo Surian nel 1499 fece il suo testamento, in atti Andrea dalla Scala, nella casa medesima, ove pure in quell'anno venne a morte. In tale proposito così scrisse Marin Sanudo nei «Diari»: «1499. Adì 9 novembrio morite m.o Jac.o da Rimino medico, qual havia fato caxe con questo verso n.o do, una a S. Zulian, et una a S. Trovaxo, zoè: Rura, domus, nummi, felix hinc gloria fluxit. Fo sepulto a S. Stefano in una archa in chiesia, dove etiam è questo verso. Lassò uno fiol dott. medico». Bande (Ponte, Calle delle) a S. Maria Formosa. «Si suppone», scrive il Dezan, «che questo ponte si chiami delle Bande per essere stato il primo in questi contorni eretto coi muriccioli laterali che chiamansi Bande». Narra la cronaca Magno (Classe VII, codici 513-518 della Marciana) che, visitando il doge nella vigilia della Purificazione la chiesa di S. Maria Formosa, il pievano, al «ponte de pietra buta in campo» soleva stendere una tovaglia, né lasciava passare il principe se non gli avesse dato una moneta di rame, detta «bianca», solita a coniarsi per quella funzione soltanto. Altre cronache dicono che l'offerta facevasi «sul ponte arente alla giexia». Si può credere adunque che, essendo quello delle «Bande» il ponte più vicino alla chiesa di S. M. Formosa, sul medesimo la descritta cerimonia avvenisse. Bandi (Calle) a S. Canciano. Bandiera (Corte) sulla «Fondamenta delle Penitenti». Un «G. Bandiera et frat. q. Carlo q. Antonio» fecero passare in propria ditta da quella di «Zuane Salgarella», con traslato 1° luglio 1662, «una casa et magazen da malvasía in contrà de S. Geremia in Cannaregio, pervenuti nelli detti frat. in virtù de pag.° di dote fatto al off.° del Proprio sotto dì... Zugno 1654». Bao (Ramo) a S. Angelo. Leggasi «Bau», poiché questa denominazione, che, per essere moderna, non si trova negli Estimi della Repubblica, dipende da un Pietro Bau, ora defunto, il quale, parecchi anni fa, teneva aperto per suo conto uno spaccio da vino posto qui presso. Maestro di chitarra ed altro, egli aveva continua pratica colle donne d'allegra vita che in questo «Ramo» erano domiciliate. Ciò abbiamo appreso dall'indagini fatte ai vicini. Barbarigo (Corte) all'Angelo Raffaele. La casa, che qui possedeva la patrizia famiglia Barbarigo, per cui vedi Duodo o Barbarigo (Fondamenta), venne distrutta nel 1820, ed anticamente apparteneva ai Michiel. Nel 1592 Nicolò Michiel diede alloggio in essa all'arciduca d'Austria Massimiliano, elettore di Polonia, il quale fatto era ricordato dalla seguente epigrafe posta nel giardino: Maximiliano Austriae Arciduci Maximiliani II Caes. F. Rodulphi II Caes. Fratri, Poloniae Regi Electo, Roma Redeunti Nicolaus Michaelius Hospit. XIII Kal. Maii. MDXCII. La «Corte Barbarigo» all'Angelo Raffaele è attualmente chiusa. Altre strade di Venezia portano il nome della patrizia famiglia Barbarigo. Barbaro (Corte, Fondamenta, Ramo, Fondamenta, Calle) a S. Vitale. Il palazzo Barbaro, di stile archiacuto, sembra eretto nel secolo XIV. Ignorasi, giusta il Fontana nelle sue Illustrazioni alla «Venezia Monumentale e Pittoresca», e ne' suoi «Cento Palazzi» ecc., a chi da principio appartenesse, sapendosi soltanto che Pietro Spiera, uno de' suoi antichi proprietarii, asserì nel suo testamento fatto il 17 settembre 1414, d'averlo egli pure comperato. In seguito l'ebbe un Pietro Franco, droghiere a S. Provolo; indi, sotto il doge Foscari, un Nicolò Aldioni, e fu da Lucia Coppo, vedova di quest'ultimo, che acquistollo Zaccaria Barbaro, cavaliere e procuratore di S. Marco, dalla famiglia del quale venne in epoca posteriore restaurato. V'abitarono nel 1499 l'ambasciatore di Francia, nel 1514 l'ambasciatore ungherese, e nel 1524 la vedova del marchese di Mantova, sorella del duca di Ferrara. I Barbaro possedevano pure un altro prossimo palazzo, fondato, dal 1694 al 1698, sul disegno dell'architetto Antonio Gaspari. Questa famiglia, che impose il nome a più vie della nostra città, passò da Roma nell'Istria, quindi a Trieste, e finalmente a Venezia nell'868. Fu così chiamata per un Marco che, essendo provveditore dell'armata condotta nel 1121 dal doge Domenico Michiel in aiuto di Terra Santa, ritolse ai barbari il vessillo di S. Marco. Il valore di lui emulossi dai discendenti, e specialmente da Donato, vincitore nel 1259 del Paleologo, e da Antonio, che fu nel 1655 e 1656 Capitano in Golfo, nel 1667 Provveditore Generale in Candia, e nel 1670 Provveditore Generale in Dalmazia. Egli morì nel 1679, lasciando un legato di 30 mila ducati pell'erezione del prospetto della chiesa di S. Maria Zobenigo. I Barbaro si resero chiari anche per altri meriti, potendo vantare un Giosafat viaggiatore distinto, un Ermolao nominato nel 1491 da papa Innocenzo VIII patriarca d'Aquileja, noto pe' suoi lavori sopra Dioscoride, Aristotile e Plinio, e pelle importanti negoziazioni di cui fu incaricato presso Federico III e Massimiliano imperatori; per un Daniele, eletto nel 1557 coadjutore del patriarca d'Aquileja Giovanni Grimani, e traduttore di Vitruvio; finalmente per un Marco autore delle «Genealogie Patrizie», e d'altre opere inedite di veneziano argomento. Barbier (Sottoportico del) in Cannaregio. Ancora pochi anni fa scorgevasi qui aperta una vecchia bottega da barbiere. Era costume fra i nostri maggiori, venuto forse dal vicino regno d'Italia, che i nobili ed anche i cittadini portassero la barba, esclusi i servi e gli ecclesiastici, servi anch'essi del Signore. Questi ultimi però stettero sbarbati fino al secolo XVI, e dopo portarono la barba in diverse fogge. Il patriarca Contarini la proibì loro nel 1509, ma essi in seguito tornarono ad usarla, né bastarono, come dice il Gallicciolli, 130 anni di replicati decreti per far sì che se la tagliassero. Frattanto i nobili cominciarono a deporla, leggendosi che l'ultimo in questo ceto a lasciarla crescere fu Paolo Foscari nel 1657, ed allora giova credere che anche gli ecclesiastici avranno seguito l'esempio degli ottimati. L'arte dei Barbieri è molto antica. Sappiamo che essi si distinsero nella processione dell'Arti, fatta nel 1268 per festeggiare l'elezione del doge Lorenzo Tiepolo. Idearono in quell'occasione una mascherata allusiva ai tempi dei cavalieri erranti. Si videro comparire, cioè, due di loro armati di tutto punto, sopra bellissimi destrieri, e condurre seco quattro damigelle capricciosamente abbigliate. Giunti in faccia al doge, uno scese da cavallo, ed inchinandosi disse: «Noi siamo due cavalieri erranti che abbiamo cavalcato per cercar fortuna, e ci siamo assai travagliati per conquistar queste quattro damigelle. Ora veniamo alla vostra Corte, e se alcuno volesse contrastarcele, siamo parati a difenderle da buoni cavalieri». Il doge rispose, che erano i ben venuti, che terrebbeli in grande onore, e che nessuno oserebbe toccare sì bella conquista. Allora i barbieri gridarono a gola squarciata: «Viva il nostro messer Lorenzo Tiepolo nobile doge di Venezia!» e passarono oltre. Sappiamo pure che quest'arte andò esente dall'obbedire alla legge, promulgata il 15 marzo 1306, con la quale proibivasi di tener fuoco in Rialto per timore degli incendii («Capricornus»). Soltanto però nel 1435 si costituì in corpo unitamente a quella dei parrucchieri. Era sotto il patrocinio dei SS. Filippo e Giacomo, ma nel 1465 trasportossi ai Servi, ove eresse nel 1468 una scuola, che rifabbricò nel 1772, dopo l'incendio del 1769. Aveva pure un altare in chiesa di San Giovanni Novo, ed un altro luogo di riduzione dietro la chiesa. Vedi: Cicogna, «Inscrizioni Ven.», volumi I e III. Barbo (Ramo Corte, Corte, Ramo Corte seconda) a S. Pantaleone. Affermano le cronache che i Barbo vennero da Roma nei primi tempi, e che erano «tribuni antichi, saggi e prudenti, di natura allegra, buoni compagni, et ingegnosi nelle cose del mar». Il Codice 183, Classe VII, della Marciana, fa prova che questa famiglia aveva possessioni in parrocchia di S. Pantaleone fino dall'anno 1188. Anche nel 1379 abitavano a S. Pantaleone quei patrizi Barbo, i quali facevano fazione all'Estimo del Comune. Fra questi «Pantalon Barbo il piccolo» venne impiegato dalla Repubblica in importanti servigi, ed incontrò grandemente l'odio di Francesco di Carrara, signore di Padova, che nel 1372 spedì alcuni emissari per farlo trucidare. La trama andò a vuoto, «avendone avuto sospetto» (come si legge nella cronaca manoscritta del Caroldo, Codice 141, Classe VII della Marciana) «Cattaruzza meretrice nel Castelletto, che era luogo in Rialto deputato a peccatrici, et insieme Margarita per alcune parole che li disse la Gobba la quale teneva marzaria dietro S. Marco». Gli assassini quindi furono giustiziati, e premiate le donne rivelatrici del fatto. Nicolò Barbo q.m Giovanni, pur esso da S. Pantaleone, avendo ritrovata gravida d'un proprio servo Bona Tartara, che teneva in casa come schiava, fortemente bastonolla «cum un bigolo ab acqua». La schiava, giurando vendetta, corse tosto a comperare dell'arsenico in una prossima farmacia, e lo cacciò nella minestra del padrone, onde questi in breve morì. Essa, per sentenza della Quarantia Criminale 19 maggio 1410, venne condannata ad essere condotta pel «Canal Grande» legata ad un palo sopra una «peata», mentre un banditore gridava ad alta voce il di lei misfatto, ad essere quindi strascinata a coda di cavallo per la città fino in mezzo alle due colonne di S. Marco, e colà pubblicamente abbruciata. Fra i distinti di casa Barbo nomineremo quel Lodovico che nel 1437 venne eletto vescovo di Treviso, e quel Pietro che il 30 agosto 1464 salì al trono pontificio col nome di Paolo II. Vedi Papa (Sottoportico e Corte del). I Barbo andarono estinti nel secolo trascorso. L'antica loro casa dominicale di S. Pantaleone è nominata dal Ridolfi («Delle Maraviglie dell'Arte, ovvero Delle Vite degl'illustri Pittori Veneti e dello Stato») colle seguenti parole: «In casa Barba a S. Pantaleone miransi nell'intavolato d'una stanza un capriccio de' sogni et alcune deità in un cielo con varie imagini delle cose apportate nel sonno alle menti de' mortali, e le quattro stagioni in figura nel recinto». Tali pitture erano del Tintoretto. Sulle scale poi dello stesso palazzo, che poscia appartenne ai Bembo, esisteva un simbolo marmoreo molto antico, disegnato dal Grevembroch («Veneziane Curiosità Sacre e Profane» al Civico Museo). Barcaroli (Ponte dei). Anticamente questo Ponte chiamavasi «del Cuoridoro» per una bottega da «cuoridoro», ricordata tuttavia dal nome d'un prossimo Sottoportico, e d'una prossima Corte. Vedi Cuoridoro (Sottoportico e Corte). Poscia chiamossi «dei Barcaroli» per lo stazio di gondole, che anche oggidì esiste in questa situazione. Non lungi dal «Ponte dei Barcaroli», nella casa al N. A. 1827, morì il 23 dicembre 1851 il poeta Luigi Carrer. Baretteri (Ponte, Rio dei) a S. Salvatore. Il Marin nella sua «Storia Civile e Politica del Commercio dei Veneziani», dopo aver parlato di varie arti che nei secoli XIII e XIV fiorivano in Venezia, così si esprime: «Non erano meno in uso le berrette a quei dì, delle quali coprivano comunemente la testa non meno i plebei che i distinti cittadini, ed i nobili. Ponte dei Baretteri viene detto ancor quello che unisce la Merceria nella sua divisione, locché fa credere che le vicine strade avessero molte botteghe di venditori di questa manifattura». Infatti, il Gallicciolli cita tre «baretteri, o berretteri», da S. Salvatore (i confini della qual parrocchia giungevano anche una volta a questo Ponte) che nel 1379 fecero prestiti alla Repubblica. E più tardi altresì varii «berretteri» stanziavano presso il ponte suddetto, il quale nel libro «Presbiter» viene nominato fino dal 1315, e, per la prima volta fabbricossi in pietra nel principio del secolo XVI, leggendosi in Sanudo sotto il febbraio 1508 m. v.: «Fo compito el ponte di pietra in marzaria che prima era di legno, et fo bella opera, laudata molto da tutti». Sappiamo che nel 1741 venne levata una casa che ingombravalo, e che nel 1772 fu rifabbricato con balaustri decorati agli angoli da leoni, oggidì non più esistenti. Abbiamo poi un'incisione del Giampiccoli che rappresenta il solenne apparato eretto il 31 agosto 1772 sul ponte medesimo pel solenne ingresso del Cancellier Grande cav. Girolamo Zuccato. L'arte dei «Berretteri» si raccolse in corpo principalmente per una legge del 18 marzo 1475. Il 12 marzo 1506 decretossi poi che dovesse essere unita a quella dei «Marzeri». Essa contava anticamente molte fabbriche pel consumo della città, e per le commissioni solite a venire dall'Istria, Dalmazia e Levante, essendosi sparsa la fama che le berrette veneziane si tingessero con finitezza, e durevolezza di colore. Negli ultimi tempi però era decaduta d'assai per la mutazione del nazionale costume, sicché nel 1773 aveva soltanto sette botteghe con 27 capi maestri, 11 lavoratori, ed un garzone. Bari (Calle Larga, Lista Vecchia dei) a S. Simeon Grande. «Baro», scrive il Gallicciolli, illustrando questa località, «era un tempo un'isoletta fra Scopolo e Birri. E' però nome generale di terreno paludoso ed incolto. Perciò l'Erizzo nella sua cronaca dice che le monache della Celestia ebbero un baro per edificarvi un monastero ed una chiesa. Ed il Scivos dice che nel 1201 si fabbricò la chiesa di S. Andrea sopra un gran baro appresso al Lido». Altri vorrebbero che qui un tempo abitassero, oppure avessero ritrovo, «bari», o barattieri, appoggiandosi al Sabellico, il quale dà il nome di «nebulonum» a queste località. Senonché è d'uopo considerare che il Sabellico, senza curarsi dell'etimologia dei nomi attribuiti alle contrade di Venezia, li traduceva molte volte in latino alla lettera, come ai suoi tempi correvano. Quanto al titolo di «Lista Vecchia», è da notarsi che col vocabolo «lista» s'intendevano le adiacenze del palazzo d'un ambasciatore straniero, le quali godevano, come gli antichi asili, d'alcune immunità pei delinquenti. Questa era la lista dell'ambasciatore Cesareo domiciliato nel prossimo palazzo Correr, ora distrutto, che aveva la facciata sopra la così detta «Riva di Biasio». L'ultimo degli ambasciatori Cesarei ad abitarvi fu il marchese Giovanni Antonio Turinetti di Priè, il quale nel 27 luglio 1753 fu colpito da apoplessia a Mogliano, ed il 13 luglio 1754 venne sostituito dal conte Filippo Giuseppe di Rosenberg, che, come abbiamo veduto, pose stanza a S. Barnaba. Vedi Ambasciatore (Ramo dell'). Barozzi (Calle, Calle e Ponte, Ponte, Ramo, Sottoportico e Ramo, Calle, Corte Ramo primo, Ramo secondo) a S. Moisè. In «Corte Barozzi» sorgeva anticamente un palazzo di gotico stile con torri e merlature, che scorgesi chiaramente nella Pianta topografica di Venezia, intagliata in legno nel 1500, ed attribuita ad Alberto Durero. Questo palazzo, posseduto dalla patrizia famiglia Barozzi, venne da essa rifabbricato nel secolo XVII sullo stile del Longhena, e poscia, per via di matrimonii, passò nei Corner e negli Emo, dai quali il 5 marzo 1827 l'ebbero i Treves. Antica per certo è la dimora dei Barozzi a S. Moisè, se fino dal 1164 un Domenico Barozzi, figlio di Vitale da Torcello, comperò in questa parrocchia un pezzo di terreno che confinava coi possedimenti colà situati, di altri della stessa famiglia. Vorrebbero alcuni che il palazzo di cui parliamo sorgesse in sostituzione della poco distante casa dominicale che i Barozzi avevano, secondo le cronache, «a banda zanca, in bocca del Rio Menuo, dalla parte verso S. Marco, per mezzo della Doana», e che venne spianata quando alcuni di essi si resero complici della congiura di Bajamonte Tiepolo. Potrebbe essere però che ambedue le case sussistessero contemporaneamente, e che la famiglia Barozzi nella parrocchia di S. Moisè si dividesse anticamente in più di un ramo. Essa è originaria di Padova, da cui passò a Torcello e quindi a Venezia, ove rimase del Consiglio quando fu chiuso. Un Giacomo Barozzi venne eletto barone dagli imperatori di Costantinopoli ottenendo il dominio delle due Isole di Santorino e Tirasia nell'Arcipelago. Egli fu padre di quell'Andrea che, generale di 55 galere, nel 1264 ruppe i Genovesi, prendendo la città d'Acri in Soria. Un patriarca di Grado, ed uno di Venezia, varii vescovi, ed altri uomini cospicui anche per dottrina, nobilitarono questa famiglia, della quale oggidì vive il commendatore Nicolò, direttore del patrio Museo. Troviamo nelle cronache che in palazzo Barozzi a S. Moisè alloggiò nel giugno 1497 un ambasciatore Turco col seguito di dodici Greci, diretto al Re dei Romani, e che nel gennaio del 1498 M. V. v'alloggiò pure, incognito, il signore di Correggio, venuto per passatempo a Venezia. Cognato, com'era, di Benedetto Barozzi, vi ritornò nel 1500 e 1503. In «Corte Barozzi», dopo il 1775, si trasportò l'uffizio delle Poste dello Stato, che stava anteriormente a S. Cassiano. Qui rimase fino al 1806. Vedi Posta (Via alla). Barucchi (Calle) in Ghetto Vecchio. «Colomba, Ester, Regina, Jacob et Emanuel, fratelli e sorelle Baruch q. Isach» traslatarono il 1° giugno 1728 da «Jacob Baruch q. Samuel Ebreo» vari stabili in «Ghetto Vecchio nella Calle Baruch», e ciò «giusta il pagamento di dote da essi ottenuto nel M.to Ecc.mo de Cinque Savii alla Mercantia, 2 ottobre 1727, e stime 14 marzo 1728, per la q. Rachel Sara Baruch loro madre». In «Calle Barucchi» appiccossi un gran fuoco il 15 aprile 1752, che viene ricordato dal Gallicciolli, e di cui scorgonsi ancora i vestigi. Barzizza (Corte, Ramo) a S. Silvestro. Dal palazzo Barzizza, che ha il suo prospetto, collo stemma della famiglia, sul «Canal Grande». La famiglia Barzizza è d'origine bergamasca. Avendo il conte Nicolò Vincenzo Barzizza, canonico della cattedrale di Bergamo, sovvenuto di danaro la Repubblica nell'aspra lotta contro il Turco, venne ammesso al Maggior Consiglio, coi nipoti e discendenti, nel 1694. Egli nella supplica per ottenere il patriziato diede i cenni seguenti della propria famiglia: «Sono 4 secoli che Giacomo Barzizza nella rocca di Bergomo, come uno dei deputati della città, riconobbe la successione dei Visconti. Giacomo Ambrosio Barzizza si conciliò la famigliarità del Duca Galeazo Sforza con memorabili attioni, et illustri impieghi. Molti con la laurea dottorale insigni sopra le catedre più cospicue delle università più famose. Giuniforte Barzizza, dottorato in Pavia nell'età primitiva di tredici anni, scrisse molto, et operò assai per Alfonso re d'Aragona, et per i duchi di Milano, in servitio dei quali esercitò anco con sommo decoro il grado di Vicario Generale. Il Co. e Cav. G. Antonio, con titolo di dottore e Protonotario Apostolico, fu impiegato in diverse cariche in servitio della Santa Sede; è stato anco Auditore Generale delle Romagne. Finalmente, con diploma spetioso di Carlo V, e di Massimiliano II, che attesta la nobiltà di nostra casa, riconosciuta da stipite antico di 4 avi paterni e materni, fu Gio. Maria Barzizza dichiarato secretario e consigliere di Stato, perpetuando nella casa il titolo di Conte Palatino, e nella persona quello di cavaliere aureato con honore d'haver nella coronatione dell'Imperatore in Aquisgrana tenuto la sua spada» ecc. ecc. Non è antica però la dimora dei Barzizza in Venezia, ed essi ebbero il palazzo da altre famiglie. Basadonna (Corte ecc.). Vedi Tramontin. Basegò (Calle e Corte del) al Malcanton. Siamo d'avviso, benché non possiamo accertarlo, che queste strade abbiano avuto il nome dalla famiglia Basilicò, volgarmente «Basegò», e non, come pensano alcuni, dal basilico, o «basegò», nota erba odorifera. Un Giovanni di questo cognome venne abilitato all'esercizio di cancelleria fino dal 1684. In «Corte del Basegò» havvi una sponda, o «vera», di pozzo di marmo rosso, costrutta nel 1436, che, come congettura il Cicogna dall'iscrizione, avrebbe appartenuto al convento di S. Salvatore, e sarebbe stata trasportata in questo sito al momento nel quale il convento venne rifabbricato, cioè nel 1530. Bassa (Calle) a Castello. Pretendono alcuni che abbiasi denominato dalla sua bassa imboccatura dalla parte della «Fondamenta Rio della Tana». Senonché, una famiglia Basso viveva in parrocchia di S. Pietro di Castello nel secolo trascorso, leggendosi nell'elenco dei confratelli defunti della Scuola di S. Maria della Misericordia: «3 dicembre 1780. Sepoltura del q. Zabatta. Basso confratello di disciplina della contrada di S. Pietro di Castello». Bastion (Calle) a S. Martino. Da una di quelle osterie grandi ove vendevasi vino al minuto, le quali chiamavansi «bastioni». Essa nel 1713 era condotta da un Valentino Grandi. Nel 1767 fu vittima di grave incendio, menzionato dal Gallicciolli. Un'altra di tali osterie, condotta nello stesso anno 1713 da un Antonio Giozza, diede il nome alla «Calle del Bastion» a S. Gregorio. Ritroviamo che nel 1773 i «Bastioneri» erano 30, e 246 nel 1796, nel qual anno si compresero probabilmente sotto tal nome anche coloro che conducevano luoghi minori ad egual uso destinati, detti subalterni. Il consorzio dei «Bastioneri» non formava corpo d'arte, e ciascuno era considerato confratello del medesimo per quel tempo soltanto in cui durava nel proprio esercizio. Battagia (Calle, Ramo, Corte, Ramo) in «Birri», a S. Canciano. G. Francesco Loredan, economo dell'eredità di Cristoforo Battagia diede in nota ai X Savii sopra le Decime, in virtù della parte del Senato 1711, varie case «in contrà di S. Cantian, in Birri, in Corte de ca' Battagia». La famiglia Battagia discese da Cotignola nel Milanese, patria degli Sforza ai quali fu congiunta d'affinità, come riferiscono il Malfatti, ed il Freschot. Ebbe anche domicilio in Milano e conseguì la nobiltà veneziana l'anno 1500 per aver Pietro Antonio Battagia, guardiano del castello di Cremona, ceduto quella fortezza alla Repubblica. Egli ricevette in dono altresì una casa sul «Canal Grande», la villa di Montorio nel Veronese, e 26 mila ducati in contanti. Alcuni dell'anzidetta famiglia si distinsero nella guerra di Candia, specialmente Girolamo, che, dopo molte belle imprese, venne eletto Provveditore Generale in quell'isola nel 1667. Colà portossi valorosamente, restando ferito di bomba, ma, successa la resa, e ritornato a Venezia, si vide incolpato di mala condotta, e posto in carcere. Ben presto però rifulse la di lui innocenza, sicché fu assolto, e promosso a nuovi onori. In «Corte Battagia» in «Birri», vi è una bella «vera» di pozzo di stile arabo bizantino. Nella corte medesima abitava quella Giulia Carozzo, moglie di Paolo Adami, la quale, non volendo accondiscendere alla libidine di G. Battista Zambelli, sacerdote della chiesa di S. Silvestro, venne da lui uccisa, in età di anni 27, il 17 aprile 1743. Battello (Calle, Campiello, Rio, Fondamenta del) a San Girolamo. Da un battello fermo nell'acqua, sopra del quale, anche tuttora, si passa da una parte all'altra del canale. Nota il Dezan che qui non si poteva per lo passato costruire alcun ponte, perché il canale era di privata ragione delle monache di S. Girolamo, e dei frati di S. Secondo. Battocchio (Sottoportico e Corte del) ai Tolentini. Emerge dalle Condizioni del 1514, che in parrocchia di S. Croce, a cui queste strade erano soggette, abitava un «Zuane Batocchio drappier fo del m. Giacomo». Di lui forse tocca il Sanudo nei «Diarii» colle seguenti parole: «In questo zorno (22 maggio 1515) a vesporo, a li Sora Consoli, hessendo in lite Zuan Batocchio Masser alla Camera d'imprestidi con uno suo cugnado, nominato Pietro Bonavita, et altercandosi di parole, el dito Piero dette di uno fuseto al prefato Zuan Batochio, e poi altre ferite, ita che statim morite. El qual Zuane Batochio era drapier richo, et tuto di caxa dil Ser.mo Principe nostro, qual lo fece Cap.o di le Preson. E lui messe dito suo cugnado e poi fu casso». Altre famiglie Battocchio, o Battochio, abbiamo avuto in Venezia. Beccher (Calle del) a S. Felice. Pell'arte dei «Beccheri», o Beccai, vedi l'articolo antecedente. Beccherie (Campiello, Calle delle) a S. Giobbe. Qui esistevano nel 1713 «due beccarie grandi con magazzeni dove si ammazzavano li manzi, di ragione Cucina, tenute in affitto dai partitanti Beccheri, i quali pagano, secondo l'informationi prese, per affitto soldi 4 per ogni manzo che si ammazza». Bella (Ruga, Ponte di Ruga) a S. Giacomo dall'Orio. Secondo il Dezan, queste denominazioni provennero dall'amenità del sito. Il «Ponte di Ruga Bella» è chiamato anche del «Forner». Vedi Forner (Fondamenta del). Bembo (Calle) a S. Salvatore. Il palazzo Bembo, respiciente con la facciata la «Riva del Carbon», è della scuola del Calendario, e dal 1657 al 1671 fu ristaurato colla spesa di 47 mila ducati. La famiglia, che ne era proprietaria, da cui si denominarono altre strade di Venezia, venne da Bologna in queste isolette nei primi tempi, poiché fino dal 527 un Giovanni Bembo ricordasi tribuno d'Eraclea. Essa fu una di quelle che nel 697 concorsero all'elezione del primo doge, e che nel 982 firmarono la donazione dell'isola di S. Giorgio Maggiore, fatta dal doge Tribuno Memmo al monaco Giovanni Morosini. Questa famiglia si può dire una delle più cospicue fra le nostre patrizie, vantando uomini celeberrimi in santità, valor militare, e dottrina. Quanto a santità, produsse, tre celesti Comprensori, cioè S. Leone vescovo di Modone e Corone, che fiorì circa il 1110, il B. Antonio dei pp. Gesuati, vissuto nel 1395, e la Beata Illuminata terziaria Francescana, morta nel 1483. Quanto a valore, Gio. Matteo difensore di Cattaro, assalito nel 1539 dai Turchi; Giovanni distruttore degli Uscocchi, eletto doge nel 1615, nonché altri sei fra generali di terra e di mare. Quanto a dottrina (e ciò sia per non parlare di altri) l'eruditissimo Pietro, eletto cardinale nel 1539. Egli, come attesta un codice della raccolta Cicogna, era del ramo proprietario del palazzo sulla «Riva del Carbon», ed anzi si hanno buoni fondamenti per credere che nel palazzo medesimo nascesse, poiché è certo che qui nacque Bernardo di lui padre, il quale, unitamente alla moglie Elena Marcello, ebbe tomba nella prossima chiesa di S. Salvatore. Sembra bensì che poscia, per le divisioni famigliari, Pietro rimanesse privo dell'avito palazzo, ed altrove ponesse stanza, laonde potrebbe aver ragione la «Temi Veneta» pel 1735 indicando un palazzo Bembo a S. Boldo, ora distrutto, come «casa del celebre cardinale». Il nostro municipio adunque farebbe cosa degna se sopra il palazzo Bembo sulla «Riva del Carbon» ponesse una lapide rammemorante colui che primo fermò le leggi dell'idioma italiano, fu lo storico della sua patria, e dettò lettere e coltissime rime. In Palazzo «Bembo» a S. Salvatore alloggiò il magnifico Giuliano dei Medici, venuto il 15 ottobre 1510 a Venezia per curarsi della oftalmia che affliggevalo. In «Calle Bembo» a San Salvatore accadde grave incendio il 14 marzo 1763, che incenerì la locanda della Tromba ivi situata. Benedetto (Campo, Traghetto). La chiesa ex parrocchiale di S. Benedetto sorse nel 1005 per cura dei Caloprini, Burcali, Falieri ecc., e nel 1013 fu ceduta da Domenico e Giovanni Falieri al monastero di Brondolo, sotto i varii possessori del quale rimase, finché nel 1435 venne dichiarata indipendente dal pontefice Eugenio IV. Minacciando rovina, si rifabbricò nel 1619, a spese del patriarca Giovanni Tiepolo, e si consecrò nel 1695. Nel 1810 divenne succurrsale di S. Luca. Riferisce la cronaca del Barbo che «adì 29 Novembre 1540 el campaniel di S. Benetto in Ven.a a hore 22, e senza algun strepito di temporal, ma da vecchiezza, cascò con ruina fin su le fondamenta, et era de domenega, et indivinò non trovasse niuno a passar, et dannizò la gesia ruinando un quarto di quella che fu la parte verso il campo, qual tegnivase con el detto campaniel». Presso il «Traghetto di S. Benedetto», il quale è ricordato in un documento del 1293 con le parole: «in confinio S. Apollinaris ad tragettum Sancti Benedicti», scorgesi un palazzo, eretto, secondo il Sansovino, nel secolo XVI dai Talenti, e passato poscia in mano della famiglia d'Anna. Qui soleva frequentare assaissimo Tiziano Vecellio, compare di Martino d'Anna, ricco mercante Fiammingo, cui ritrasse col suo magico pennello. Martino fece dipingere a fresco la facciata di questo suo palazzo che guarda il «Canal Grande» dal Pordenone. Esso, dopo la famiglia d'Anna, venne posseduto dai Viaro, dai Foscarini, e dai Martinengo. Il nobile Giovanni Conti, anch'esso proprietario del medesimo, lasciavalo, morendo nel 1872, alla Casa di Ricovero di Venezia. Il Boschini riferisce che al «Traghetto di S. Benedetto» esisteva un altarino, o «capitello», dipinto dal Pordenone, e ristaurato dall'Ingoli, «dove si vede», egli dice, «Maria Annunziata dall'Angelo, il Padre Eterno, e nel soffitto i quattro dottori della Chiesa con doi Angioletti, uno per parte dell'immagine di Maria». Non lungi dalla chiesa di S. Benedetto vi è il teatro di questo nome che, dietro disegno di Francesco Costa, venne eretto nel 1755 dai Grimani, sopra terreno dei Venier, e che distrutto da un incendio nel 1774, fu rifatto in miglior forma per opera di Pietro Chezia. Era il teatro nobile di Venezia innanzi la fondazione di quello della Fenice. Esso va celebrato singolarmente pel ballo che v'ebbe luogo nel 1782, quando i principi ereditarii della Russia, sotto il titolo di Conti del Nord, visitarono Venezia. «Le sale dorate», dice il Berlan, «i lumi, gli specchi, 84 dame sedute ad una tavola circolare, e dietro ad esse una schiera di cavalieri in piedi, al levar del sipario fecero apparir d'improvviso il palco scenico siccome uno degli incantati palazzi delle Mille ed una Notti, e trassero l'applauso e il battere spontaneo delle palme dai principi spettatori». A questo teatro, dopo un ristauro, si pose nel 1875 il nome di Rossini in onore del celebre maestro. Circa al ponte che da S. Luca mette al teatro di S. Benedetto, ritroviamo che, avendolo i Grimani edificato per la prima volta di tavole la notte del 21 decembre 1755, ad onta delle opposizioni della famiglia Magno, proprietaria del palazzo di fronte, alle cui mura attaccavasi, esso venne atterrato la notte seguente per ordine del governo. Quindi fu riedificato, ma fracassato per la caduta della facciata della chiesa di S. Luca nel 1827, venne finalmente eretto in pietra dai Gallo, successi nella proprietà del teatro, e rinnovato nel 1875. Benzon (Calle) a S. Benedetto. La famiglia Benzon è così antica da annoverare, dicesi, S. Venturino Benzone, martirizzato nel 120, e S. Benzone Benzon, vissuto nel 124. Leggesi che questa famiglia fiorì anticamente nel castello di Parrasio, abbruciato il quale per sospetto d'eresia, fondò nel 951 la città di Crema. Nel 1407 Giorgio Benzone, signore di Missano, Agnadello e Pandino, e principe di Crema sua patria, si fece ascrivere al Veneto patriziato, dietro invito del doge Steno. Egli, dopo avere perduto i propri dominii, fu assoldato nel 1426 qual condottiere d'armi della Repubblica, carica sostenuta pure da alcuni fra suoi discendenti. Altre aggregazioni al Veneto patriziato ebbe questa famiglia nel 1482. A parlare dei tempi moderni, essa produsse quel Vittore, gentile poeta, il quale premorì alla madre Marina, celebre per galanteria, e per aver dato soggetto alla graziosa canzone: «La Biondina in gondoleta». Marina Benzon nel suo palazzo a S. Benedetto, donde trasse il nome la calle che stiamo illustrando, era solita di tenere fiorite adunanze, ove intervenivano i più distinti forestieri dell'epoca, quali Byron, Moore, Canova, Pindemonte, Arici, ecc. Dalla famiglia Benzon, sebbene da un ramo diverso, uscì pure quel Camillo, vescovo d'Adria, da alcuni anni decesso. Bergama (Calle, Ponte della) a S. Simeon Grande. Vuolsi derivato il nome a questa località da una locanda detta «la Bergama» perché destinata ad accogliere i forestieri venuti dalla città di Bergamo. Per queste particolari albergherie vedi le voci Bressana, Feltrina, Verona, Vicenza ecc. Il «Ponte della Bergama» è detto anche «Gradenigo» per essere vicino al palazzo tuttora posseduto da questi patrizii. Vedi Gradenigo (Rami) ecc. Allargatosi il sottoposto «Rio Marin», venne questo ponte nel 1875 rifatto. Bergamaschi (Calle) a S. Moisè. Proviene la denominazione da quei di Bergamo, molti dei quali in contrada di S. Moisè e di S. Maria Zobenigo lavoravano alle biade nei secoli XVI e XVII, come appare dai Registri mortuari. Altra «Calle dei Bergamaschi» giace a S. Simeon Piccolo, ed anche in tale contrada stanziavano non pochi della stessa nazione, che attendevano all'arte della lana. I Bergamaschi avevano due scuole di divozione in Venezia, l'una sotto gli auspici di S. Alessandro, in chiesa di S. Silvestro, e l'altra, sotto gli auspicii della B. V. Assunta, in chiesa di S. Giovanni di Rialto. Berlendis (Calle) al Malcanton. Guida questa strada al palazzo già posseduto dalla famiglia patrizia Berlendis, originaria di Bergamo. Fra i distinti della medesima vi è Giacomo, il quale nel 1615 dimostrò in tal modo il proprio valore contro i Turchi e gli Uscocchi, che il Senato onorollo del carico di Sopraintendente generale dell'Artiglieria; nonché Giulio, vescovo di Belluno, ammesso al Consiglio col fratello Camillo nel 1662 per lo zelo dimostrato nel soccorrere la Repubblica in tempo d'urgenti bisogni. Anche Nicolò, figlio di Camillo, si fece molto onore come podestà e capitano di Trevigi e, venuto a morte nel 1772, fu sepolto in chiesa di S. Margherita con epigrafe illustrata dal Cicogna. Passata la «Calle della Testa», per dirigersi verso le «Fondamenta Nuove», havvi un'altra località chiamata «Calle Larga Berlendis» da un'altra famiglia di questo cognome, ascritta alla cittadinanza originaria, ma discendente dal medesimo ceppo dei Berlendis patrizii. La casa dominicale, già posseduta da questa famiglia, ha la facciata che guarda, oltre il rivo, la «Fondamenta dei Mendicanti», ed apparteneva «a prè Ippolito e fratelli Torella», da cui passò in «Pietro, Zuane e Bortolo frat. Berlendis q. Camillo» collo strumento 3 giugno 1723, in atti di Bartolammeo Mandelli N. V. Pietro Berlendis fu Governatore dell'Ospizio della Pietà, e Dottore. Dalla moglie Catterina Zender, sposata nel 1716 ebbe, quel Giovanni che nel 5 aprile 1752 venne approvato cittadino originario. Lorenzo, Pietro e Bartolammeo, figli di Giovanni, ottennero il titolo di baroni con terminazione 4 decembre 1767. La famiglia Berlendis, detta dalle «Fondamenta Nuove», o «dai Mendicanti», mercanteggiava anticamente in seta ed in cambi. Essa aveva in chiesa del Sepolcro un altare dedicato ai SS. Francesco e Chiara, e la propria tomba con arma gentilizia, ed iscrizione. In «Calle Larga Berlendis», verso il «Rio della Panada», esisteva un teatro, che era stato eretto di tavole dalla patrizia famiglia Grimani da S. Maria Formosa, ove nel 1639 si eseguì la «Delia o sia la Sera sposa del Sole», poesia dello Strozzi, musica del Sacrati. Un anno dopo si ricostruì in pietra, ma nel 1715 fu chiuso, e nel 1748 ne precipitò il tetto, laonde in seguito venne completamente distrutto. Il Martinioni, nelle sue aggiunte alla «Venetia» del Sansovino, dice che in questo teatro, «si recitano il Carnevale Opere Musicali con maravigliose mutationi di scene, comparse maestose e ricchissime, macchine e voli mirabili; vedendosi per ordinario risplendenti Cieli, Deità, Mari, Reggie, Palazzi, Boscaglie, Foreste et altre vaghe e dilettevoli apparenze. La musica è sempre squisita, facendosi scelta delle miglior voci della Città, conducendone anco da Roma, di Germania, e d'altri luoghi, e specialmente donne, le quali, con la bellezza del volto, con la ricchezza degli habiti, con il vezzo del canto, con l'attioni proprie del personaggio che rappresentano, apportano e stupore e meraviglia». Il teatro in «Calle Larga Berlendis» era detto anche di «Calle della Testa» perché ad essa vicino. Berlomeni (Corte) alla Giudecca. «Berlomeni» è cognome di famiglia. Non troviamo però quando essa abbia abitato, o posseduto stabili nell'isola della Giudecca. Bersaglio (Rio del) a S. Alvise. Il «Rio S. Alvise», o «dei Riformati», dicesi volgarmente anche del Bersaglio da un locale ove sotto la repubblica tiravasi al bersaglio colle bombarde. Che ciò si praticasse di fare in questo sito fino dal secolo XVI, è provato da una Pianta topografica di Venezia, impressa nel 1572, la quale pone in fondo al rivo suddetto «il bersaglio dove si esercitano li bombardieri». Qui anche sotto la dominazione Austriaca v'erano esercizii d'artiglieria. Nel «Bersaglio» di S. Alvise facevasi, durante la quadragesima, il giuoco del Calcio dai giovani patrizii divisi in due fazioni, la prima schierata al di qua, e la seconda schierata al di là d'un portone aperto, od arco di tavole, oltre il quale slanciavasi un pallone. Una fazione allora tentava di conquistarlo, e l'altra di conservarlo, cercando d'allontanarlo coi piedi, e reciprocamente affrontandosi, spingendosi, e respingendosi colle spalle e col corpo soltanto, giacché era proibito d'adoperare le braccia, che dovevano tenersi unite ai fianchi. Il pallone conservato, o ritolto, decideva della vittoria. I lottatori indossavano per tale divertimento snelli imbusti senza maniche, e coprivansi il capo con berretti, o cappellini piumati. Un frate riformato di S. Bonaventura, preparando nel 1609 in «Bersaglio» di S. Alvise alcuni fuochi artificiali, ebbe la sventura di rimanere abbruciato. Dice il Gradenigo ne' suoi «Commemoriali» che questi era il frate Paolo Savojardo, e pone il caso sotto il 12 novembre 1686. Leggesi nel Tentori («Della Legislazione Veneziana sulla Preservazione delle Lagune») che il Senato, con decreto 9 gennaio 1578 M. V., accordò ai Savii ed Esecutori alle Acque di spendere ducati 1000 delle Decime delle Miniere per costruire la «Fondamenta di pietra viva» intorno al luogo detto il «Bersaglio di S. Alvise». Bevilacqua (Calle, Corte) all'Angelo Raffaele. Un «Antonio Bevilacqua fo de S. Baldissera» possedeva una casa nel 1514 «in la contrà di S. Rafael». Egli apparteneva a famiglia cittadinesca, ed era zio di quel Domenico Bevilacqua che nel 1559 venne eletto segretario del Consiglio dei X, vi rinunciò nel 1572, e nel 1574 preparossi la tomba con epigrafe nella prossima chiesa di S. Sebastiano. Bezzo (Calle del) a S. Barnaba. Un «Costantino di Bezzo fo de S. Vincenzo» era nel 1582 «habitante ne la contrà di S. Barnaba ne la casa di ser Beneto de Piero». Troviamo che Camilla di lui moglie aveva testato fino dal 14 maggio 1562 in atti Francesco Colonna. Altre famiglie di questo cognome lasciarono ricordo di sé stesse in altre strade di Venezia. Bianchi (Corte dei) a S. Apollinare. Un «Marco di Bianchi», nato in parrocchia di S. Apollinare, ottenne ai 12 luglio 1601 d'essere approvato cittadino originario. La medesima concessione era stata fatta ai 28 novembre 1584 a G. Battista di lui padre, ed ai 30 aprile 1548 a Pietro di lui avo. Essi pure erano nati nella medesima parrocchia. Questa famiglia Bianchi, o di Bianchi, da S. Apollinare, aveva bottega da piombi e ferramenta, all'insegna della Madonna, sul «Ponte di Rialto». Bianco (Corte del) a Castello. E' detta nella descrizione della Contrada di S. Pietro di Castello pel 1661 «Corte di Ca' Bianco», senza che allora vi domiciliasse, o vi possedesse stabili alcuna famiglia di questo cognome. Ciò dev'essere accaduto in antecedenza, e probabilmente nel secolo XVI, poiché nel 1566 un «Alvise Bianco fo de s. Bastian» notificò una «casa de statio» a Castello, con altra casa a S. Margherita, e beni sotto Padova e Mestre. Al padre del suddetto Alvise si riferisce la seguente annotazione che trascriviamo dal Necrologio della Scuola di S. Maria della Carità: «1544, 16 Marzo. Sebastian Bianco dal Canevo fo levado de giesia de Castello, et fo sepulto a S. Domenego in la sua archa, a sue spese, con capa sua, et avessimo in chompagnia fradelli 180». Consorte poi dello stesso Alvise fu Corona Vedova, di cui i Necrologi Sanitari: «Adì 11 7brio 1573: mad.a Corona m.r d. m.r Alvise Bianco de anni 33 da parto, g.ni 8, S. Piero». Questa famiglia Bianco, chiamata anche Bianchi, beneficò il convento di S. Domenico di Castello. Biasio (Riva, Traghetto della Riva di) a S. Simeon Grande. Narrano quasi tutti i «Registri dei Giustiziati», che nel 1503, ovvero 1520, aveva bottega sopra questa riva un «luganegher», o salsicciajo, chiamato Biagio Cargnio, o Cargnico, il quale, spinto al certo da estro diabolico, soleva preparare colle carni di teneri fanciulli da lui trucidati lo «sguazeto», specie d'intingolo, caro specialmente alla nostra plebe. Narrano pure che, avendo un operaio ritrovato una mattina entro la propria scodella la prima falange di un dito umano coll'unghia, ne diede tosto avviso alla giustizia, e che l'empio Biagio, dopo aver confessati i delitti commessi, venne, per ordine della Quarantia Criminale, tratto a coda di cavallo dalla carcere alla sua bottega, ove subì il taglio d'ambe le mani, tanagliato nel ritorno, decapitato finalmente fra le due colonne di S. Marco, e fatto a quarti che si appesero alle forche consuete. La di lui casa e bottega adeguaronsi al suolo, e la fondamenta ove abitava appellossi da quel momento in poi «Riva di Biasio». Anche una cronaca scritta, a quanto pare, fra la fine del secolo XVI ed il principio del XVII (Classe VII, Codice 30 della Marciana) parla di questo Biagio colle parole: «Nota che tutte le barche venivano da Mestrina arrivavano all'hostaria di Biasio, hora detta Riva di Biasio». Ed il Foscarini ai nostri tempi, nei «Canti del popolo Veneziano», così in questo proposito induce a parlare una madre: Sulla Riva de Biasio l'altra sera So andata col putelo a chiapar aria, Ma se m'a stretto el cuor a una maniera Che la mia testa ancora se zavària: Me pareva che Biasio col cortelo Tagiasse a fete el caro mio putelo! Nel nostro Archivio però, né sotto la data del 1503, né sotto quella del 1520, havvi alcun documento riferibile al fatto di «Biasio», ed esso non è pure ricordato dal Sanudo ne' suoi «Diari», ove pur raccolse tanti fatti di molto minor grido di questo. Ciò può far credere che erronea ne sia la data. E veramente, pochi anni fa, fu scoperto un processo contro altro Biagio «varotèr», fatto il 7 giugno 1395 dai Signori di Notte al Criminale, ove leggiamo: «Item dixit et confessus fuit quod circa unum annum, de die precise non recordatur, et fuit tempore estivo, quod de contracta Sancti Johannis decolati, penes ripam Blasii, de illa callesella stricta quae vadit supra canale, penes ca' de Vidor, de una domo ad pedem planum, et quis in illa moraretur nescit, furtive accepit unum par linteaminum grossorum veterum» ecc. Da ciò si vede che la denominazione di «Riva di Biasio» esisteva più d'un secolo prima dell'epoca attribuita dai «Registri dei Giustiziati» al fatto da essi narrato. Sulla «Riva di Biasio» morì il giorno 11 marzo 1730 la duchessa di Baviera Teresa Cunegonda Sobieschi, vedova del Serenissimo Massimiliano. I visceri di lei riposano nella chiesa di S. Simeon Grande innanzi al gradino dell'altare della sacristia. Birri (Rio terrà dei) a S. Canciano. Appellasi «Birri», o «Biri», un'ampia contrada dietro la chiesa di S. Canciano dal canale «Biria», da cui era anticamente attraversata. La cronaca del Trevisan (Classe VII, Cod. 519 della Marciana) dice: «S'ingolfava una sacca con una velma et un canale detto Biria, che forma quella parte che oggidì Birri si chiama». E' probabile poi che «Biria» fosse corruzione di «Bierum», colla qual voce, secondo il Ducange, si intendeva appunto un canale il cui corso dava moto ai molini. L'accennata contrada dividevasi in «Birri Grande», e «Birri Piccolo». Perciò il Sabellico («De Situ Urbis»), parlando della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, così si esprime: «Praejacet templo area cum lapideo ponte qui in majores Birros et minores mittit». I due riparti, come appare dalle Descrizioni della contrada di S. Canciano, eran divisi dalla così detta «Calle Stella». Scrive il Gallicciolli: «1691 Giovedì Santo, ore 22, in Birri fu incendio. Suonavano le campane vicine». (V. Ms. Svajer 865). In «Birri», verso le «Fondamenta Nuove», presso la «Calle Ruzzini», eravi giuoco di «racchetta». In questa contrada raccoglievasi pure ogni festa un'accademia di suono e di canto. I «Notatori» di Pietro Gradenigo, sotto l'anno 1775, dicono che aveva incominciato qualche anno prima. Qui venne eseguita a quattro voci, sotto la direzione del maestro G. Antonio Bianchi, la «Primavera Pastorale», dedicata al senatore Girolamo Giustinian. Bisati (Sottoportico dei) ai Gesuati. Qui c'era l'impresa che forniva le anguille, dette in vernacolo «bisati». Nell'«Iconografia» del Paganuzzi la località è chiamata «Sottoportico del partito dei bisati». Circa il «partito dei bisati» trovansi molte leggi nel «Capitolar Rosa» che contiene gli «Ordini et Registrationi delli Ill.mi SS.ri Savii et PP.ri sora le Mariegole et Mestieri» (presso il R. Archivio Generale). Biscotella (Calle, Ramo) a S. Giobbe. Leggiamo nei «Notatori» del Gradenigo che Matteo Biscotello, appaltatore del sego in Cannaregio, celebrò il 5 aprile 1761 il matrimonio di tre sue figliuole in chiesa di S. Matteo di Rialto, dando loro per dote 2 mila ducati a testa. Bissa (Calle della) a S. Bartolammeo. Acquistò il nome dalle sue tortuosità somiglianti ai serpeggiamenti d'una biscia. Ce lo attesta chiaramente il Sabellico («De Situ Urbis»), da cui è chiamata «vicus qui, in anguis speciem retortus, anguineus dicitur». Si trova nominata nel libro «Spiritus» fino dal 1340. In questa Calle e nei luoghi circonvicini, verso il «Ponte dell'Olio», stanziavano i Lucchesi, i quali nel secolo XIV, a più riprese, emigrarono dalla loro patria, e, se non portarono, perfezionarono al certo in Venezia l'arte della seta. «Li qual Lucchesi» (dice il Codice 939, Classe VII della Marciana) «se ne vennero a Venetia, et li fo consegnata la Calle della Bissa, et chiamaronla la Calle dei Thoscani, et lì fecero le sue botteghe, et creorno l'officio ch'al presente si trova dietro la chiesa, chiamato l'officio della Seda». La chiesa accennata dalla cronaca è quella di S. Gio. Crisostomo, dietro la quale havvi tuttora uno stabile, col N. 5864, adorno degli stemmi di varii Provveditori della seta, e dall'iscrizione: «Provisores Sirici». Perciò la prossima Corte, ora detta «del Forno», dicevasi «Corte della Seda». Il citato Sabellico, parlando dei fondachi che al suo tempo eranvi nella tortuosa «Calle della Bissa», così si esprime: «Illi ipsi ambitus densissimis sunt officinis referti, in quibus omnis urbicus purpureae texturae apparatus, non sine spectantium admiratione, conspicitur; incredibilis opificum manus in auro et serico varii coloris explicando est occupata». Leggiamo nei «Diari» del Sanudo: «A dì» (26 marzo 1506) «la matina achadete che apresso il Fontego di Todeschi che si lavorava in una calle chiamata di la Bissa, a hore 1/2 terza cazete certa casa vechia, et amazò n. 5 che passava de lì via, et altre magagnoe. E' stà cossa notanda». Un incendio arse in «Calle della Bissa» il 18 ottobre 1728. Il prete Antonio Nardini, nel suo libro intitolato: «Series Historico-chronologica Praefectorum qui ecclesiam... S. Bartholomaei rexerunt», dice che questo incendio avvenne sotto il vicariato di Giovanni Betolli, e che, per voto, la chiesa di S. Bartolammeo prese a commemorarne l'anniversario coll'esposizione del SS. Sacramento. Bo (Calle del) a Rialto. Nel 1661 in «Ruga dei Spezieri» a Rialto, a cui fa capo la «Calle del Bo», stanziava «Gio.Maria Laghi specier al Bo d'Oro». La sua bottega era precisamente quella che porta il N. A. 376, e che, anche alcuni anni fa, era aperta ad uso di speziale da confetture. Sugli stipiti di essa scorgesi tuttora, benché corrosa dal tempo, la figura di un bue. Potrebbe credersi però che il nome della calle sia più antico, e che, invece di dipendere dall'anzidetta insegna, dipenda colla insegna medesima, dall'antica osteria del Bo, che troviamo aver esistito nel secolo XV in S. Matteo di Rialto. Abbiamo infatti una legge del 1460 per cui tutte le meretrici dovevano concentrarsi in alcune case di Priamo Malipiero a S. Matteo di Rialto, le quali erano poste «in quadam ruga post hospitium Bovis». Bollani (Fondamenta) ai SS. Gervasio e Protasio. Il prossimo palazzo Bollani sorse nel 1709, secondo la maniera del Tirali. La famiglia fondatrice, la quale diede il nome ad altre strade, vuolsi oriunda da Bollis, città dei Sabini. Discordano però i cronisti circa il tempo, e circa il luogo donde ultimamente si partì per dirigersi a Venezia. Chi la crede venuta da Aquileia nel 965; chi da Costantinopoli nel 1125, ovvero 1229. Regna la medesima discordia nel fissare l'epoca in cui ottenne il patriziato, scrivendo alcuni, che, appena afferrati questi lidi, fosse ammessa al Consiglio, e vi rimanesse nel 1297; pretendendo altri che vi entrasse solo nel 1381 per benemerenze acquistate nella guerra di Chioggia. Occupa onorevole seggio nella storia quel Domenico Bollani, il quale, spedito ambasciatore ad Edoardo VI d'Inghilterra, ottenne l'onore d'inquartare nella propria l'arma del re, ed essendo poi rettore a Brescia nel 1558, venne eletto, con breve pontificio, vescovo di quella città. Egli, dopo aver assistito al Tridentino Concilio, spirò nel 1579 fra le braccia di S. Carlo Borromeo. Questa famiglia produsse altri vescovi, varii letterati, e varii uomini eziandio che si distinsero nelle belliche imprese. Bolza (Calle della) a SS. Ermagora e Fortunato. Leggasi cogli Estimi «dalla Bolza», cognome di famiglia cittadinesca, che troviamo domiciliata in parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato fino dal secolo XIV. In questo secolo infatti un Giovanni dalla Bolza lasciò la sua «casa da statio», posta in tale contrada, al figlio Leonardo, col patto che dovesse passare, di erede in erede, fra i suoi discendenti. Leonardo non ebbe dalla moglie Antonia Lombardo che una sola femmina per nome Franceschina, la quale era amoreggiata da un Giacomo d'Angelo. Essendosi costui di notte arrampicato per ben due volte al di lei balcone, e nascostosi una volta nella di lei casa, venne condannato il 3 novembre 1388 a due mesi di carcere, ed alla multa di 100 lire. Cionostante l'ebbe poscia in isposa, e da questo matrimonio nacque Lazzarino, che, unitamente al figlio Davide, godendo, pei patti testamentari, i beni della famiglia dalla Bolza, ne assunse il cognome. Qui insorse un Francesco, solito anche egli a farsi chiamare dalla Bolza, ad attestare innanzi l'Avogaria che discendeva da un altro Francesco, figlio, e non figliastro, come era infatti, di Giovanni dalla Bolza, di cui abbiamo parlato, ed a ripetere, com'ultimo erede del medesimo, la «casa da statio» ai SS. Ermagora e Fortunato. Ottenne egli una sentenza in proprio favore, ma Davide dalla Bolza, provando l'inganno, la fece annullare nel 1428. La famiglia dalla Bolza andò estinta in quell'Angela, figlia del suddetto Davide, la quale nel 1514, chiamandosi vedova del N.U. Antonio Donà, notificò «uno stabile diviso in quattro affittanze» nella parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato. Bombardieri (Calle, Sottoportico, Calle dei) a S. Francesco della Vigna. L'iscrizione e l'imagine di S. Barbara, che, ancora pochi anni fa, scorgevansi all'ingresso del Sottoportico, nonché gli antichi catasti, indicano che qui possedeva stabili la confraternita dei Bombardieri. Essi, come si ha dalla loro «mariegola», conservata nel nostro Archivio Generale, fabbricarono queste case sopra un terreno vacuo del N.U. Lorenzo Minio, comperato nel 1555 allo incanto dai «Governatori delle Entrade», dai quali comperarono pure nel 1557 una prossima casa con bottega, che apparteneva alla N. D. Caterina Orio. L'arte dei Bombardieri piantò scuola, sotto il patrocinio di S. Barbara, l'ultimo ottobre del 1500 in un locale presso la chiesa di S. Andrea, ma il 12 decembre 1501 trasportossi ai SS. Ermagora e Fortunato, prendendo a pigione per le sue radunanze una «casetta sotto la casa del piovan». Finalmente nel 1505 passò a S. Maria Formosa, ove pure ottenne dal pievano Michele di Clementi «domunculam subtus domum suam, positam ad pedem planum, penes pontem lapideum». Questa scuola, che sorge appiedi del così detto «Ponte delle Bande», e che, quantunque ridotta a privata abitazione, conserva tuttora scolpita l'imagine di S. Barbara, venne rifabbricata dai Bombardieri nel 1598, i quali costrussero eziandio in chiesa di S. Maria Formosa un altare in cui s'ammira la bellissima pala di Palma il Vecchio, rappresentante Santa Barbara loro patrona. Sappiamo che i Veneziani adoperarono le bombarde fino dal tempo della guerra di Chioggia, e che in quella occasione, come si esprime il Platina nella Vita di Urbano VI, «nulla erat scapha Venetorum, nullus lembus qui non duas bombardas, et eo amplius, haberet». Alcuni credono che i nostri conoscessero quest'arma anche qualche tempo prima. Negli ultimi tempi della Repubblica i Bombardieri potevano dirsi, più che altro, militi urbani. Erano dai 400 ai 500, e vestivano un abito di panno turchino con mostre e fodere rosse, farsetto e brache di dante, calzette bianche, scarpe con nastro e con fibbia, portando in capo un piccolo tricuspide cappello, ed in mano una corta alabarda. Essi servivano come guardie d'onore nelle pubbliche solennità. Il luogo ove esercitavansi al bersaglio era S. Nicolò del Lido, oppure S. Alvise, non lungi dal convento dei PP. Riformati di S. Bonaventura. Alcuni di questi militi si resero distinti per intelligenza ed imperturbabilità nella spedizione comandata da Angelo Emo contro i Cantoni Barbareschi (anno 1784 e susseguenti). Il loro ultimo comandante fu Domenico Gasparoni, Sopraintendente alle Artiglierie. Bombaseri (Ramo Calle, Calle, Ramo Calle dei) a S. Bartolammeo. Nel 1661 circa dodici «bombaseri», o venditori di bambace, aveva bottega e volta in queste strade. L'arte dei «Bombaseri» era sotto il patrocinio di S. Michele Arcangelo, e raccoglievasi in chiesa di S. Bartolammeo, ove, fino dal 12 gennaio 1540, le venne assegnato un altare anteriormente sacro a S. Anna, ma che da quel momento in poi dedicossi a S. Michele. I «Bombaseri» si costrussero pure in chiesa di S. Bartolammeo nel 1580 la propria sepoltura. Anticamente raccoglievansi forse in chiesa dell'Ascensione, mentre l'autore delle «Vite e Memorie dei Santi spettanti alle Chiese della Diocesi di Venezia», narra, che nella «Mariegola» dei «Bombaseri» si ordina, sotto l'anno 1328, ai frati dell'Ascensione di cantare annualmente, la seconda domenica di novembre, una messa pei confratelli defunti, e di distribuire in quel giorno all'arte due ferculi, ossia una refezione, gli avanzi della quale dovevano essere donati ai poveri. Notisi però che qui ci deve essere uno sbaglio circa la data dell'ordinazione, attesoché nel 1328 i Procuratori di S. Marco non avevano ancora dato in affitto il monastero dell'Ascensione a frate Molano e suoi compagni. Ciò avvenne soltanto nel 1336. V. Ascension (Calle ecc. dell'). I «Bombaseri» sfoggiarono il proprio buon gusto accompagnando nel 1574 il re Enrico III di Francia da Murano a Venezia con un brigantino a 12 remi, dipinto di bianco e di rosso, ed avente una coperta di damasco chermisino. Scrive la Cronaca del Savina: «A 4 novembre» (1582), «zioba de notte, s'accese fuoco a S. Bort.o appo la chiesa, nelle case e botteghe di bombaseri, che durò fino ad hora di nona del dì seguente, et diede grand.o danno alli habitanti in esse, et alli patroni delli stabili, tra quali furono i Nob.i Uom.i Almorò e fratelli da cà Zane fu di Martino, et hanno perso più di 300 ducati di rendita, et il vicario di S. Bart.o hebbe danno per mille ducati, et altri molti. Corse tutta la Maestranza dell'Arsenale a smorzarlo». Bon (Ramo Secondo) in Birri. La Descrizione della contrada di S. Canciano, fatta nel 1713, pone in «Birri», e propriamente in questo punto, il «palazzo dominicale di Andrea e fratelli Bon». Questo Andrea, secondo i continuatori del Barbaro, era nato da un Nicolò il 26 gennaio 1679 m. v. Alcuni fanno provenire i Bon da Bologna a Torcello, e quindi a Venezia, considerandoli come derivati da un ceppo comune. Altri, per lo contrario, vorrebbero che, usciti da sangue diverso, fossero venuti fra noi da diversi paesi, e veramente essi dividevansi in più d'un ramo con arma differente. Egli è certo poi che il ramo il quale abitava in «Birri» era quello detto «dalle Fornase» per le molte fornaci che anticamente possedeva. I continuatori del Barbaro giungono colla genealogia di tal ramo fino ai Fratelli «Paolo, Nicolò, Leonardo, Marchiò, Vettor, Marcantonio, Lorenzo» ed «Andrea», figli d'Alvise, tutti nati nel principio del secolo scorso. Egualmente i Codici 2 e 3, Classe VII della Marciana, omettendo «Marchiò», e facendo in calce l'annotazione: «Passarono dall'antica lor casa in Biri, a S. Stae nei stabili ereditati da Cà Priuli sul campo». Non taceremo per ultimo il ramo Bon, domiciliato in «Birri», da quell'«Alvise dalle Fornase», fatto nobile nel 1381, i discendenti del quale assunsero l'arma ed il cognome dei Bon. I Bon diedero in ogni tempo uomini illustri alla patria. Un Rustico Buono da Torcello nell'828 portò da Alessandria il corpo di S. Marco. La storia rammenta pure con lode quell'Antonio Bon che sostenne varie cariche militari, e che nel 1508, essendo Provveditore a Peschiera, venne fatto appiccare, secondo il Guicciardini, ai merli della fortezza col figlio Leonardo, per ordine di Francesco I di Francia; quel Pietro Bon morto nel 1571 valorosamente combattendo alle Curzolari, nonché quell'Ottaviano, mecenate dei letterati, e nel 1620 Podestà di Padova, il cui elogio fu inciso nel Palazzo Pretorio. Anche la «Calle dell'Arco», in «Ruga Giuffa», è detta «Bon». V. Arco (Calle dell') detta Bon. Bonazza (Corte) ai Carmini. Un «Nicolò Bonazza fo de Gabriel» notificò nel 1582 di possedere varii stabili in parrocchia dell'Angelo Raffaele, a cui un tempo era soggetta la Corte di cui parliamo. Questi stabili coll'andar del tempo divennero proprietà di altre famiglie. Ancora però nel 1699 alcuni caratti di casa situata «al Ponte Rosso, in Corte da cha Bonazza, in contrà dell'Anzolo Rafael», erano in ditta d'un'«Isabetta r.ta Nicolò Bonazza», donde passarono in quella d'un'«Adriana r.ta Zuane Terzi». Della surriferita famiglia fu forse quel «Marco Bonazza laner», che nel 1582 era domiciliato in faccia la chiesa dei Carmini, e che non crediamo una persona diversa da quel Marco Bonazza, il quale nel 1568 costrusse in chiesa dei Carmini un sepolcro per sé, per la moglie Dorotea Prezzato, e pei figli con epigrafe riportata dai raccoglitori. Bonfadini (Corte) agli Ognissanti. In «Corte Bonfadina a Ogni Santi», posta anche anticamente sotto la parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio («vulgo S. Trovaso»), possedeva alcune case nel 1661 il «N. U. Zambatt. Bonfadini». Egli nacque da un Giovanni Chizzali, venuto dal Tirolo circa il 1580, il quale prese a dirigere una bottega da droghe in «Ruga dei Spezieri» a Rialto, appartenente ad un Nicolò Bonfadini, di cui sposò la nipote. Il Chizzali, rimasto erede del medesimo nel 1602, ne assunse il cognome, continuandone il traffico, e colle ammassate ricchezze diede agio ai propri figli G. Battista, Francesco, e Giuseppe di farsi ammettere al Maggior Consiglio nel 1648. Sembra che le case in «Corte Bonfadini» fossero state comperate dallo stesso Chizzali, trovandosi ch'egli innanzi al Collegio dei X Savii traslatò in propria ditta una «casa e cinque casette in contrà de S. Trovaso pervenute nel d. per strumento d'acq.sto fatto da Pasqual Pizzoni e frat. q. Zacc.a sotto 22 feb. 1620 a nativitate, nelli atti de Z. And. di Catti». Bonlini (Fondamenta, Calle) ai SS. Gervasio e Protasio. Costantino Bonlini del q. Francesco, disceso da famiglia bresciana, arricchitasi col traffico di zuccheri e droghe, venne aggregato al M. C. coi fratelli Domenico e Giuseppe il 12 settembre 1667, mediante l'offerta di 100 mila ducati. Il fratello di Costantino, G. Domenico invaghissi d'una donna del popolo che, ancor vivo il marito, gli partorì alcuni figli, e che venne da lui sposata allorché rimase vedova. G. Domenico, dopo questo fatto, piantò casa a parte, ed il 17 maggio 1685 collo sborso di 100 mila ducati, di cui 60 mila in libero dono, e 40 mila ad interesse, ottenne anche pei suoi figli la Veneta nobiltà. Uno dei due rami nei quali era divisa la famiglia Bonlini abitava ai SS. Gervasio e Protasio negli ultimi tempi della Repubblica («Libri d'Oro»). Un «Ramo Bonlini» vi è pure a S. Sofia, presso la «Fondamenta S. Andrea». Borella (Ramo e Corte, Corte) ai SS. Giovanni e Paolo. Nel 1661 era qui domiciliato un «Francesco Borella», mercadante, in una casa della «N. D. Paolina Basadonna». In questa Corte, la quale prima della riforma delle parrocchie, stava sotto S. Marina, ebbe principio nel 1703 l'Istituto delle Penitenti, che poscia venne trasportato in Cannaregio. Una famiglia Borella abitava pure presso alcune località a S. Girolamo, nell'antica parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato, o «S. Marcuola». Un «Zuane fio del q. Piero Borela» morì in questa parrocchia il giorno 8 novembre 1630. Borgo (Fondamenta, Ponte di) ai SS. Gervasio e Protasio. Dall'essersi anticamente detto questo sito «Borgo di S. Trovaso» (SS. Gervasio e Protasio), la qual denominazione risale al secolo XIV, poiché la si trova in una sentenza dell'«Avogaria di Comun» del 5 marzo 1357. Borgoloco (Ramo, Calle, Ponte di) a S. Maria Formosa. Troviamo in Venezia un «Borgoloco» a S. Maria Formosa, ed un altro a S. Lorenzo. Vuole il Gallicciolli che in questi siti vi fossero anticamente molte albergherie, e che il nome di «Borgoloco» sia provenuto dalla frase veneziana «tegnir uno a loco e foco», cioè «tenerselo in casa, tenerselo a proprie spese» (in francese: «defrayer, fournir aux frais»). Appiè del «Ponte di Borgoloco», sul muro d'una casa già posseduta dai Donato, o Donà, scorgevasi la miracolosa imagine della Vergine, trasportata nel 1612 dal cardinale Francesco Vendramino in chiesa di S. Maria Formosa, e situata sull'altare dei Donato. Vedi l'epigrafe sottoposta al «capitello» presso al Ponte, e quella in chiesa presso il suaccennato altare. La casa medesima fu sede più tardi dell'Uffizio del Lotto, il quale nel 1734 venne preso in appalto per un decennio. Questa è la ragione per cui il «Ponte di Borgoloco» chiamasi anche volgarmente «dell'Impresa». Borsa (Corte, Ramo e Corte, Calle della) a S. Ternita. Varie memorie d'una famiglia Borsa in parrocchia di S. Ternita riscontransi nel secolo XIV. Un «Dusino Borsa fustagner», venuto da Cremona, e domiciliato a S. Ternita, ottenne l'ultimo ottobre dello anno 1349 un privilegio di cittadinanza Veneziana. Egli nel 1370 era confratello della scuola della Carità, e nel medesimo anno preparossi la tomba in chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Anche un «Chabrin Borsa» da S. Ternita figura qual confratello della scuola della Carità nella «Mariegola» dal 1337 al 1375. Questi fece testamento nel 1372 in atti Antonio Borsari. Finalmente un «Andrea Borsa» (e non «Bopsa» come in Gallicciolli) da S. Ternita, figliuolo di «Chabrino», contribuì prestiti alla Repubblica nel 1379. Bosello (Calle, Campo) presso la «Fondamenta di San Giobbe». Verso la fine del secolo XVI, e sul principio del XVII un «Pietro Bosello q. Francesco» possedeva varie case in parrocchia di S. Geremia, sulla «fondamenta di S. Giopo». Egli era mercante di zuccheri e droghe, e venne a morte il 17 marzo 1616, d'anni 90, nella casa di sua abitazione, posta nella parrocchia medesima, avendo fatto due giorni prima testamento (atti di Teseo Zio), con cui lasciava erede il figlio Francesco, ed usufruttuaria la moglie Vellutella Vellutello. In progresso di tempo alcune delle case ch'erano possedute da Pietro Bosello passarono in proprietà di «Cesare Amadio spicier alla Pase», ed altre di «Luca Vignola». La casa ove poi abitava fu comperata da «G. B. Catti», poiché questi, con traslato 31 luglio 1630, fece passare in propria ditta da quella di Laura Morosini «una casa da stacio posta in contrà de S. Ge.mia sora la fond.ta era per uso del q. Pietro Bosello». E' questi quel Pietro Bosello il cui giardino viene lodato dal Sansovino nella sua «Venetia» e forse è pure quel Pietro Bosello Guardian Grande della Scuola di S. Teodoro nel 1591. Una famiglia Bosello diede il nome più anticamente anche alla «Calle», al «Ramo», ed alla «Corte Bosello», o, come dicono i catasti, di «Ca' Busello», alla Pietà, in parrocchia di S. Giovanni in Bragora. Alla famiglia Bosello dalla Pietà appartenne probabilmente Pietro Bosello confratello della Scuola di S. Giovanni Evangelista, la cui morte avvenuta nel 1409, è così registrata nei libri della Scuola medesima: «M. Pietro Busello da S. Zuane in bragolla passò di questa vita a dì 13 avosto 1409 e fo seppellito ai frari minori». Gli stabili dei Bosello alla Pietà vengono ricordati nello strumento con cui la nazione Greca comperò nel 1526 l'area per fondare la propria chiesa, leggendosi che quel terreno confinava a mezzodì «con le case Vallaresso e Bosello e con la via del Grondal». Botta (Calle della) a S. Cassiano. E' chiamata negli Estimi «Calle del Botta» da una famiglia di questo cognome. Un «Bernardin Botta», mercante di panni di seta, notificò nel 1537 di possedere varie case in parrocchia di S. Cassiano. E nel 1566 «Angela Botta» vedova di «Tommaso Pin», notificò pur essa di possedere cinque case nella medesima parrocchia. Quest'Angela era figlia del citato Bernardino, come rilevasi dall'albero della famiglia. In «Calle della Botta» a S. Cassiano «Marchiò da Canal q. Pietro», la vigilia di Natale dell'anno 1598, ferì a morte, per cagion di donne, Filippo di Filippi «curin da panni». Per questo ed altri delitti, citato e non comparso, venne capitalmente bandito dal Consiglio dei X con sentenza 1 agosto 1599. Botteghe (Calle delle) e S. Samuele. Dice il Dezan, che avrà questa denominazione per esservi stato anticamente un numero maggiore di botteghe che non nei siti vicini. La cagione medesima deve aver dato il medesimo nome anche alla «Calle delle Botteghe» a S. Barnaba. Botter (Sottoportico del) a S. Giustina. Per questa, od altre località così denominate, vedi Botteri (Calle dei). Bottera (Sottoportico e Corte) ai SS. Giovanni e Paolo. Vedi Botteri (Calle dei). Botteri (Calle dei) a S. Cassiano. L'arte dei «Botteri», detta anche dei «Bottiglieri», era sotto la Purificazione di M. V. ed aveva Scuola in faccia la chiesa dei Crociferi (poscia dei Gesuiti) da tempo antico per certo, poiché colà esiste tuttora una lapide, alla Scuola suddetta appartenente, coll'anno 1290. Curioso era il costume pel quale i «botteri» dovevano acconciar gratuitamente le botti del doge colla somministrazione però dei cerchi, dei vinchi, e delle cibarie agli operai. Che poi molti costruttori di botti stanziassero in parrocchia di S. Cassiano fino dai secoli XIII e XIV, è provato dall'elenco dei confratelli ascritti alle Scuole Grandi, e da quello degli allibrati all'Estimo del Comune nel 1379. E ce lo conferma iI Gallicciolli ricordando, che la «Calle dei Botteri» a S. Cassiano serviva di sede ai «botteri da olio», ed a taluno anche da vino. Scrive Marin Sanuto nei suoi «Diarii», che il 25 gennaio 1511 M. V. fino alle tre ore di notte «fu fatto a S. Cassian in calle dei Botteri una caza di quattro tori, et poi certe momarie pur con homeni senza maschera justa la crida fatta per i Cai del Con.o di X, et fu fato alcuni balli, et fo assai persone». Sopra una casa in «Calle dei Botteri» a S. Cassiano scorgesi scolpita, unitamente ad un'arma gentilizia, la seguente iscrizione: Incendio consumpt. Restituit ant. Comendunus MDXXXII. L'Antonio qui accennato era probabilmente il padre del veneziano Francesco Comendoni, eletto cardinale nel 1563. Alcune altre strade di Venezia devono all'arte dei «Botteri» la appellazione che portano. Bottonera (Sottoportico e Corte) a S. Eustachio. Una fabbrica di bottoni diede probabilmente queste denominazioni. Bòccole (Calle delle) in Quintavalle. Le monache, ma specialmente le pinzocchere, chiamavansi anticamente «boccole», o perché portassero qualche «boccola», cioè medaglia, al collo, o perché stringessero le vesti con cintura che avesse qualche «boccola», o fermaglio, o, meglio, pel soggolo che loro pendeva increspato sotto il mento a guisa di soggiogaja, detta «boccola» dai Veneziani. Le religiose poi che qui stanziavano erano le Cappuccine, che nel 1612 trasportaronsi a S. Girolamo, ed eressero colà formale convento. V. Cappuccine (Fondamenta ecc. delle). Perciò questa Calle è detta nelle Descrizioni della contrada di S. Pietro di Castello anche «delle Cappuccine». Bògnolo (Calle). Vedi Pietre vive. Bragadin (Calle) in «Barbaria delle Tole», a S. Giustina. E' prossima ad un palazzo che era posseduto dalla patrizia famiglia Bragadin, il prospetto archiacuto del quale, sorto come appare, nel secolo XV, guarda il rivo di S. Giovanni Laterano. La famiglia Bragadin, venuta da Veglia in Dalmazia nell'800, fu una di quelle che composero la prima nobiltà patrizia. Si denominava prima Barbalin, ma nell'890 mutò arma e cognome. Gloriasi d'un cardinale, d'un patriarca di Venezia, e specialmente dell'invitto Marcantonio. Egli, dopo aver difeso fino agli estremi Famagosta assediata dai Turchi, costretto a capitolare, venne, contro i patti, scorticato vivo nel 1571. La di lui pelle, riempiuta di paglia fu portata in trionfo a Costantinopoli, e deposta nell'arsenale della città, donde poté essere trafugata a merito d'un Girolamo Polidoro. Trasferita a Venezia, collocossi da prima nella chiesa di S. Gregorio, e quindi nel 1596 in quella dei SS. Giovanni e Paolo con apposito monumento. Alcuni vorrebbero che Marcantonio nascesse ed abitasse nel palazzo in «Barbaria delle Tole». Giova però ricordare che il Codice 183, Classe VII, della Marciana, riferisce sotto l'anno 1571: «M. Antonio Bragadin da S. Felice, hora da S. Giustina di Barbaria delle Tavole q. Marco, q. S. Alvise, era Cap. in Famagosta, fu scorticato vivo dai Turchi nella resa di d. città». Ciò indicherebbe che, essendo egli nato in parrocchia di S. Felice, il di lui ramo passasse poscia ad abitare in «Barbaria delle Tole». Ed in vero anche il primo dei due Codici intitolati: «Genealogia dei Nobili veneti con le nozze» (160, 161, Classe VII della Marciana) pone il ramo di Marcantonio domiciliato a S. Felice, e fa vedere che soltanto più tardi un altro Marcantonio Bragadin, nipote del precedente, il quale venne eletto cardinale nel 1641, era appellato «da Barbaria delle Tavole». Sopra il muro del palazzo Bragadin, che guarda la «Barbaria», scorgesi un basso rilievo di marmo greco, lavoro del secolo XIV, rappresentante il profeta Daniele tra i leoni, trasportato forse dalla chiesa di S. Daniele, fondata dai Bragadin, ed ove essi avevano tomba. Sopra la porta ammirasi poi un medaglione pur esso in marmo, col ritratto di Marcantonio, fattovi collocare dal cav. Pietro Bigaglia, il quale fino dal 1824 comperò dai Bragadin il palazzo medesimo. La famiglia di cui fu parola diede il nome a parecchie altre strade di Venezia, fra le quali meritano menzione la «Calle e Ramo Bragadin» a S. Cassiano, ove i Bragadin possedevano un palazzo tuttora esistente, e la «Fondamenta Bragadin» a San Vito, ove ne possedevano un altro distrutto dal fuoco nel secolo trascorso, per cui una prossima via porta il nome di «Calle Larga Brusà». Sopra questa fondamenta esiste un ospizio per povere, fondato nel 1432 mediante lascito di «Franceschina Marin relita Bartolomeo della Torre zogelier», essendosi allora destinati al pio scopo 50 campi nella villa di Trevignan, un pezzo di «squaro» in parrocchia di S. Agnese, e gli interessi d'un picciolo capitale in zecca. Sul prospetto della casa inserviente all'ospizio scorgesi tuttora scolpita una torre col motto Jesus, e con sottoposta lapide ove è scritto: Mulieribus Pie Legata Anno MCCCCXXXII. Braso (Calle, Ponte) a S. Alvise. E' corruzione di «Brazzo», cognome d'antica cittadinesca famiglia, il cui stemma scorgesi tuttora qui presso scolpito. Essa, secondo il Ziliolo (Classe VII, Cod. 90 della Marciana) venne dalla Toscana, attese alla mercatura ed alla vita civile, e possedeva «molti beni così fuori come dentro della città et particolarmente a S. Alvigi presso il ponte et nella calle cognominata volgarmente da cha da Brazzo». Fino dal 1437 un Goffredo da Brazzo fondò coi socii in «Campo dei SS. Giovanni e Paolo» la Scuola di S. Marco, di cui fu Guardian Grande. Egli morì nel 1457, e venne sepolto alla Certosa con epigrafe, ove si rammemoravano molti sacri edifici da lui eretti. La famiglia da Brazzo andò estinta nel secolo XVII con fine molto infelice. Alessandro da Brazzo si maritò nel 1641 con Cecilia, figlia di Giulio Maffetti, marito di Maria da Brazzo, sorella di esso Alessandro. I lamenti, che Maria continuamente faceva al fratello pell'umore stravagante del marito, irritarono Alessandro in guisa, che nel 1643 trasferitosi alla casa del Maffetti, e trovatolo a sedere oppresso dalla podagra, gli scaricò in faccia un'archibugiata, e lo uccise. Alessandro fu perciò bandito colla sorella Maria motrice e consenziente del fatto. Vennero confiscati anche i suoi beni, che però l'infelice madre ricomperò dal fisco nel 1645. Procurò essa anche il ritorno del figlio, ma nel viaggio Alessandro fu ritrovato morto in una stalla d'animali con la faccia nella mangiatoia. Maria si rimaritò con un ufficiale forestiero, ed anche con questo secondo marito ebbe poca fortuna, sicché in breve tempo venne a morte prima della madre. La sostanza da Brazzo passò poi col cognome in casa Maffetti. Vedi il Codice 341, Classe VII, della Marciana. Brato (Ramo) a S. Simeone Profeta. Forse deve leggersi «Broto», poiché un «Cristoforo Broto q. Antonio» morì in parrocchia di S. Simeone Profeta il 16 giugno 1765. Brazzo (Calle). Vedi Braso. Brentana (Calle) a S. Moisè. Nelle notifiche presentate ai X Savii sopra le Decime nel secolo XVI questa Calle è chiamata «Bertana». Una famiglia Bertani venne approvata cittadina originaria in un Gio. Carlo, figlio di Pietro Maria, il 31 gennaio 1646. Bressana (Calle, Sottoportico e Corte) ai SS. Giovanni e Paolo. Qui nel 1661 esisteva la così detta «Casa Bressana», ove abitava il «signor noncio di Bressa», essendovi pure il «casìn della posta di Bressa». Questo stabile, che apparteneva ai Grimani, non serviva però al medesimo scopo nel principio del secolo passato, poiché nel 1712 trovasi descritto in «Calle Bressana», ai SS. Giovanni e Paolo, «il luocho che fu una volta Posta di Bressa, chiamato casa Bressana, che abitavano foresti e cavallari, hora ridotto in molte affittanze». Alcuni paesi sudditi della Repubblica, come Brescia, Bergamo, Chioggia, Lendinara e Badia, Feltre, Vicenza, e la Patria del Friuli, godevano il diritto di tenere in Venezia particolari albergherie, all'oggetto, come si esprime la legge, di alloggiare i loro «nunzii od ambasciatori, et altre persone notabili». Coll'andar del tempo ne nacque che le Comunità privilegiate concedevano tali case a persone che facevano «l'esercizio di hosti», e che alloggiavano gente di qualunque nazione, «non altramente da quello che fanno le pubbliche hosterie». Si comandò quindi il 4 giugno 1502 ad esse Comunità di «tuor le case da dosso» di quelli che ancor le tenevano, facendo le affittanze in proprio nome, e mantenendovi un custode, a cui fosse proibito di far da mangiare, e di accettare pagamento dai forestieri. Ad onta di tal legge, l'abuso spesse volte rinacque. In «Corte Bressana» ai SS. Giovanni e Paolo eravi una bellissima «vera» di pozzo in marmo bianco, lavoro dei Bon, collo stemma della patrizia famiglia Contarini dalla Zogia, proprietaria un tempo degli stabili che si stendono lungo tutto un lato della «Calle Bressana», in capo alla quale, in una corte interna, si scorgerà un'altra «vera» di pozzo in marmo rosso, collo stemma della medesima famiglia, «vera» di recente venduta, e dal suo luogo rimossa. La «vera» di «Corte Bressana» fu trasferita nel 1883 nel patrio Museo. Briati (Fondamenta, Ponte) ai Carmini. Qui presso, trovavasi, come ricorda il Cicogna, la fabbrica di cristalli Briati. Giuseppe Briati, trattenutosi per tre anni in Boemia, ed appresa l'arte di ridurre il vetro in cristallo, la introdusse fra noi nel 1730. Edificò a bella prima una piccola fornace a Murano, ma invidiato dai Muranesi, che lo assalirono di notte con armi da fuoco, ottenne nel 1739 di trasportarla a Venezia nel locale accennato. «Egli», dice il cons. Giovanni Rossi in uno squarcio della sua opera inedita sopra i Costumi e le Leggi dei Veneziani, riportato dal Cicogna, «mostrò di coltivare un ingegno distinto. Non eravi oggetto di cui non intraprendesse e non conseguisse l'imitazione, e fiori e frutti, e ponti, e giardini, e animali e figure, tutto riduceva alla perfezione. Allora per tutte le mense i signori pompeggiarono i vaghi adornamenti, chiamati dezert, e questi, spesso di pasta, di zucchero e di porcellana, diventarono quasi tutti di vetro, e di vetro del Briati, abbellendosene gli stessi pranzi pubblici del doge». Anche Nicandro Jasseo, dopo aver parlato d'un gentiluomo di Casa Zenobio, proprietario del palazzo situato sull'opposta Fondamenta, nomina la fabbrica Briati coi due versi: Hunc contra insudat sufflando fabrica vitro Unica in urbe, tuis sed quae dabit omnia votis. Non è vero poi, come disse il Bussolin nella sua piccola «Guida alle Fabbriche Vetrarie di Murano», che la fabbrica Briati andasse chiusa verso il 1790. Essa continuava ad esistere ai Carmini, sotto la medesima ditta, anche nel principio del secolo corrente. Il «Ponte Briati» si chiama pure «dei Martini» da una famiglia così cognominata, che più anticamente presso al medesimo abitava. Una figlia di «Piero Martini dai Carmini» sposò nel 1434 il N. U. Felice Bon. In occasione poi della Redecima del 1566, «Alberto dei Martini fo de m. Alvise» notificò «una casa da statio qual habito in contrà de S. Rafael, appresso il ponte per andar alli Carmini». E la «Cronaca di famiglie cittadine originarie» (Classe VII, Cod. 27 della Marciana) parlando dei Martini, così dice: «trovasi al presente Bernardin qual ha casa ai Carmini e vive d'entrada». Questa famiglia venne fra noi nel secolo XIV coi mercatanti e tessitori di seta Lucchesi. Produsse alcuni cavalieri di Malta, fra i quali quell'Andrea che, come diceva l'epigrafe fatta incidere nel 1580 dagli eredi sopra la sua tomba in chiesa di S. Croce della Giudecca, fu chiaro per molti onori, si rese benemerito della religione, ed occupossi per tutta la sua vita con somma lode negli affari dei principi. Brusà (Calle e Ramo del). Vedi Tole (Barbaria delle). Buranelli (Calle dei) in Birri. Mette al punto delle «Fondamente Nuove» ove si traghetta pell'isola di Burano, ed è tuttora assai frequentata dai «Buranelli» (abitanti di Burano), le donne dei quali tenevano pur anche in «Birri» mercato. Avendo i «Giustizieri Vecchi» promulgate diverse leggi con cui proibivasi a chi non era capo maestro stracciaiuolo di vendere oggetti spettanti a quell'arte, non ottennero giammai obbedienza dalle donne di Burano. Buratello (Calle del) a S. Nicolò. I Necrologi Sanitarii contengono la seguente annotazione: «Addì 18 Zener 1597. M. Isepo fruttariol detto Buratello de anni 60 da petechie e febre maligna, giorni 8. S. Nicolò». Nei Necrologi medesimi si legge in appresso che una «Gregola di Domenego Buratelo», ed una «Maria moglie di Domenego Buratelo» morirono pur esse in parrocchia di S. Nicolò, la prima il 28 novembre, e la seconda il 15 decembre del 1630, epoca terribile per la peste che infieriva in Venezia. Burchielle (Rio, Fondamenta del Rio delle) a S. Andrea. Qui stanziavano le «burchiele» (piccoli burchi) dell'arte dei «Burchieri da Rovinassi» (calcinacci) «e Cava Fanghi», i quali, unitamente ai «Burchieri da Stiore», ed ai «Burchieri da Legne», riconoscevano per protettrice la B. V. Assunta, ed avevano Scuola nel prossimo «Campo di S. Andrea». Possedevano pure altare proprio, e propria tomba in chiesa di S. Gregorio. Quest'arte, unita in corpo nel 1503, era privativa d'alcune famiglie, che non l'esercitavano personalmente, ma per mezzo di alcuni mercenarii, a cui apparteneva il raccogliere i fanghi, le macerie e le immondezze, ed il trasportarli in luoghi determinati, onde non pregiudicare le vie ed i canali. I «Burchieri da Rovinassi e Cavafanghi» dovevano essere nazionali, ed aver servito 4 anni. Al cadere della Repubblica si ritrovavano in numero di 288, dipendendo dal «Magistrato alle Acque» e per le pubbliche gravezze dal «Collegio Milizia da Mar». Per ulteriori notizie vedi Cicogna, «Inscr. Ven.», VI. Nel rivo summentovato stanziano ancora alcune «burchiele», destinate agli usi medesimi di cui fu parola. Busello (Calle) a San Giobbe. Vedi Bosello. Businello (Calle, Sottoportico ora Fondamenta) a S. Apollinare. Il Longo («De' Veneti originarii cittadini, Raccolta di Aneddoti, Sommarii, e Catalogo») tra quelle famiglie, le quali nel 1792 erano capaci di concorrere alla Ducale Cancelleria, cita la Businello da S. Apollinare. Questa famiglia venne dalla Lombardia, ed alcuni la fanno discendere dai Torriani, antichi dominatori di Milano. Fu illustre per segretarìe e residenze, e pei due Cancellieri Grandi, Marcantonio e Pietro, eletto il primo nel 1646, ed il secondo nel 1698. Marcantonio, fatto nel 1630 prigioniero dagli Imperiali, quando si ritrovava in qualità di residente a Mantova, si era mostrato fedele in modo da mangiare «la gelosa cifra acciò non fosse scoperta dagli inimici» («Memorie concernenti le Vite dei Veneti Cancellieri Grandi», Classe VII, Cod. 166 della Marciana). I Businello, che anticamente abitavano alla Croce, acquistarono in tempi a noi più vicini un palazzo a S. Apollinare, sul «Canal Grande», che apparteneva ai Giustinian e che ai nostri giorni fu posseduto dalla celebre danzatrice Taglioni. Buso (Traghetto, Fondamenta e Traghetto del) a Rialto. Venne forse così denominato questo traghetto per essere cacciato quasi in un «buso», o buco, sotto il «Ponte di Rialto». Altri, prendendo il vocabolo «buso» in senso osceno, affermano, che, avendo una fiata il governo della Repubblica bandito da Venezia le meretrici, e poscia essendo stato costretto a richiamarle a cagione dei gravi disordini che nascevano, quando esse furono di ritorno passarono in frotta, per avviarsi ai loro stazi di Rialto, questo traghetto, il quale perciò venne dal volgo scherzosamente fregiato del nome che porta. Veramente tale opinione è in qualche modo suffragata dalla circostanza che il traghetto medesimo nella Pianta di Venezia unita ai «Viaggi» del p. Coronelli, pubblicati nel 1697, appellasi «Traghetto dei Ruffiani, ora del Buso», in allusione (come pretendesi) allo stesso fatto, poc'anzi esposto, ed alla infamia volutasi attribuire ai barcajuoli che fecero l'ufficio di passare da una parte all'altra del canale la meretricia brigata. |
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