Da Mezzo. Vedi Mezzo. Da Mosto. Vedi Mosto. Da Mula (Ramo) a S. Vito. Creda chi vuole ai cronisti che la famiglia Da Mula provenga da Amulio re degli Albani. A noi basta sapere che essa fu una delle prime venute fra noi, che esercitò la podestà tribunizia, e che, rimasta del Consiglio nel 1297, si rese chiara specialmente per un Cristoforo generale nel 1482 contro il duca di Ferrara, e conquistatore d'Adria col Polesine; per un Girolamo che fiorì circa il 1520, e che, ito al soccorso di papa Clemente, assediato dagli Spagnuoli, soggiogò tutte le città marittime della Puglia; per un Agostino nel 1525 luogotenente d'Udine, nel 1526 provveditore generale dell'armata di qua del Mincio, indi provveditore in Friuli ecc. ecc.; per un Lorenzo, di lui figlio, vincitore dei corsari nel 1547, e nel 1577 ballottato doge; per un Marcantonio finalmente che, essendo nel 1561 ambasciatore presso il pontefice Pio IV, venne eletto cardinale. Ciò gli procacciò il bando dal Veneto stato, vietando la Repubblica ai proprii ministri d'accettare dignità dai principi presso cui risiedevano. Marcantonio fu egregio letterato ed istituì in Padova, nel Prato della Valle, il collegio dal di lui cognome chiamato «Amulio». I Da Mula abitavano in parrocchia di S. Vito fino dal secolo XV, ed in quella distrutta chiesa avevano sepolcro. Il palazzo che ad essi apparteneva guarda il «Canal Grande». Da Ponte (Calle e Corte) a S. Maurizio. E' parere di molti che il palazzo Da Ponte, d'ignoto architetto, sorgesse nel 1578 per ordine del doge Nicolò Da Ponte, sebbene il Fontana voglia invece che l'abbia fatto erigere un Giovanni Da Ponte in epoca anteriore, e che il doge soltanto vi desse compimento. Il prospetto esterno venne dipinto a fresco da Giulio Cesare Lombardo, e tuttora vi si vede una figura rappresentante la Giustizia, che calpesta con un piede un libro serrato, tiene la spada colla punta rivolta a terra, ed ha sotto il braccio le bilancie rotte. A qual fatto intendesse d'alludere il pittore, s'ignora. Il Berlan vorrebbe farvi servire di commento questi versi: Quando la forza alla ragion contrasta Vince la forza, e la ragion non basta. Il palazzo Da Ponte era nel secolo XVI gradito ritrovo dei più svegliati ingegni dell'epoca formanti corona alla celebre Irene da Spilimbergo, che colà domiciliò col proprio zio materno Gian Paolo Da Ponte. Il palazzo medesimo fu ristaurato nel 1801 sotto la direzione del Selva dopo un furioso incendio, appresosi per caso ad un armadio di vesti, nella qual occasione perirono ben undici arsenalotti. La famiglia che vi abitava, giunta, secondo alcuni, dalla Grecia, e, secondo altri, dalla Germania, vanta fino dal 959 un Giovanni Da Ponte, spedito ambasciatore con Giovanni Contarini al pontefice Giovanni XII. In epoche posteriori uscirono dal di lei seno Ambrogio vescovo di Concordia nel 1386; Antonio vescovo di Sebenico, e quindi di Concordia nel 1402, donde venne trasferito ad altre sedi; Nicolò, di cui parleremo altrove, eletto doge di Venezia nel 1578; Lorenzo che fiorì nel 1741 come vescovo di Ceneda; nonché parecchi letterati. Questa famiglia diede il nome pur anche alla «Calle Da Ponte» a S. Agnese, ove aveva l'antica casa dominicale, che Alvise Da Ponte notificò nel 1537 ai X Savii chiamandola «la casa a S. Agnese ove abito». Da Ponte (Corte) a S. Francesco della Vigna. Vedi Ponte. Dalla Bolza. Vedi Bolza. Dalla Frescada. Vedi Frescada. Dandolo o Civràn (Calle) a S. Tomà. Esisteva in questo sito nel 1740 la «casa dominicale serve per uso del N. U. Fantino Dandolo». Un ramo di questa famiglia patrizia, di cui abbiamo parlato nell'articolo antecedente, fino dal 1492 aveva comperato in chiesa di S. Tomà un sarcofago dai Morosini, posseduto prima dai Falier. Esso fu distrutto nel 1537. Vedi Pivoto: «Vetera ac nova ecclesiae S. Thomae Apostoli Monumenta». Per la seconda denominazione vedi Civran (Calle). Daniele Canal (Fondamenta) a S. Fosca. Daniele Manin (Piazza) a S. Paterniano. Questa piazza, chiamata un tempo «Campo S. Paterniano», desunse l'attuale denominazione dal monumento erettovi nel 1875, sopra disegno dello scultore Luigi Borro, in onore di Daniele Manin, Presidente del Governo Provvisorio di Venezia negli anni 1848-1849, il quale abitava nella prossima calle. Vedi S. Paternian (Calle ecc.). De Cadonici (Fondamenta) a S. Maria Formosa. Il «nob. d.r sig. Giuseppe Cadonici q.m. Lorenzo di Bergamo» comperò alcune case in questa situazione da «D. Fontana Trevisan r.ta q.m Iseppo Pizzamano» con istrumento 2 maggio 1804, in atti di G. B. Trieste notaio veneto. Sono varii anni che dalla famiglia De Cadonici le case suddette passarono in altrui proprietà. Do Porte (Corte delle) a S. Giustina. Probabilmente in tempi antichi, ed innanzi che fosse eretto l'oratorio in «Campiello di S. Giustina», questa corte era chiusa da muraglia, e due porte vi davano accesso. Presso questa località, e precisamente «in ca' Basadonna», abitava «Giacomo Palma il giovane». La casa di questo pittore era frequentata, secondo il Ridolfi, dal Guarini, Stigliani, Marino, e dal Vittoria. Fu qui che, oppresso dal catarro, egli morì nel 1628 chiedendo una matita e scrivendo. — Io veggo e sento, ma non posso favellare! — Giacomo Palma fece il suo testamento il 1° aprile 1627, nel quale nomina due figlie, cioè «Giulia», maritata nell'ecc.mo «Zanantonio Preti», e «Cleria», rimasta vedova del marito. A costei, perché povera, voleva che, detratta la dote della propria moglie Andriana, si dessero tre mila ducati, lasciandole pure alcuni quadri, e prescrivendo che il di lei figlio assumesse il cognome Palma, tanto per memoria di Palma «il vecchio», quanto per memoria sua. Quadri legava pure a Domenico Tintoretto, a cagione dell'amicizia che aveva avuto per Jacopo padre del medesimo. Disponeva finalmente d'essere sepolto ai Ss. Giovanni e Paolo nell'arca da lui fabbricata in faccia alla porta della sacrestia. A proposito di quest'arca si legge nelle «Inscriptiones Sepulchrales» (Classe XIV, Cod. 26, 27 dei Latini presso la Marciana): «Giacomo Palma il giovine, figlio» (leggi «figlio d'un nipote») «di altro Giacomo detto il Vecchio, celebre pittor, ricercò al convento di poter porre tre busti di marmo, uno in memoria sua, l'altro del famoso Tiziano e il terzo di Palma vecchio suo zio» (leggi fratello «di suo avolo») «sopra la porta della sagrestia, e fabbricar un'arca per se et heredi suoi appiedi della porta stessa. Esibì perciò al convento di dipingerli una pala con un crocefisso ed altro Santo da parte, sopra l'altare della Sagrestia, et il quadro al lato destro di esso altare, il che fugli concesso li 24 settembre 1620 con che però il convento facesse porre sopra la porta di essa Sagrestia il stemma della Religione in segno ch'essa famiglia non aveva alcun diritto sopra quella. L'arca è senza arma, et iscritione». Do Pozzi (Ruga). Vedi Due Pozzi. Dogana da Terra (Ramo della) a S. Giovanni Elemosinario. Dalla dogana per le merci terrestri, che più non esiste in questo sito, e che aveva il prospetto sulla «Riva del Vin». Essa patì un grave incendio la notte precedente il 19 dicembre 1511. Marin Sanudo nei suoi «Diari» ha questi cenni in proposito: «Ma prima voglio scriver come in questa notte a hore 8 se impiò fuogo, non si sa il modo, perché lì non vi sta niuno, in la doana di terra, et brusòe quella, et alcune volte in la calle dil hostaria olim di Storion, appresso il dazio del vin in Rialto, et fo gran fuogo, et vi era asà brigata, e mercadanti che attendeano a svodar li loro magazeni, siché tutta sta notte Rialto fo piena di zente, e merchantie si portavano a refuso fuori di magazeni, et fo gran danno ecc. Pur questa mattina fo stuà. Si dixe à principià il fuogo in un magazen dove li provedadori di comun tenevano la munitione per il fuogo, siché per la terra si andava gridando: — Zentilomeni leveve suso! andé a svodar li vostri magazeni! si brusa al fontego di la farina!» Secondo il medesimo Sanudo, la «Dogana da terra» si rifabbricò nel 1531, ed ebbe anche posteriori ristauri. Una veduta del Canaletto ce ne presenta la facciata, che nell'alto ha una trave sporgente con ruota attaccata per punire coloro che avessero commesso qualche delitto in questa pubblica azienda. Dolena atorno il Brusà (Calle) a S. Apollinare. Per la prima denominazione vedi Era (Calle, Sottoportico dell'). La seconda «atorno il Brusà» dipende da un prossimo fabbricato distrutto dal fuoco, l'area del quale, prima dell'ampliamento del palazzo Tiepolo, ora Papadopoli, scorgevasi ridotta ad orto. Perciò esistevano pure in prossimità la «Calle», ed il «Ramo Calle del Brusà». Di questo sito parla la Descrizione della contrada di S. Apollinare pel 1713 dicendo: «il terren di detto brusà è vacuo e non s'affitta». Donà o del Spezier (Calle) a S. Stin. Sul piazzale del Ponte a cui mette questa Calle, venendo dal «Campo di S. Stin», sorge a mano destra un palazzo che apparteneva ai Donà, di stile del rinascimento, e ristaurato nel 1818 per opera d'Angelo Sasso. Perciò anche il Ponte è chiamato «Donà». Lo speziale, o farmacista, esiste tuttora all'altro capo della Calle, in «Campo di S. Stin». Per quest'arte vedi Spezier (Calle del). Donna onesta (Calle al Ponte, Ponte, Fondamenta di) a S. Pantaleone. Corre volgar tradizione che un giorno due uomini passassero per questo Ponte, altercando fra loro sulla onestà delle donne, e che uno, alquanto incredulo in tale materia, dicesse per beffa al compagno — Sai tu quale è onesta fra tante? Quella là che tu vedi! — ed in ciò dire gli additasse la piccola testa di donna, scolpita in pietra, che tuttora si vede innestata nel muro sopra una casa vicina al Ponte suddetto, il quale, pell'addotta circostanza, si denominò poscia «Ponte di Donna Onesta». Altri sostengono che qui succedesse un fatto somigliante a quello di Lucrezia Romana. Vedi il Pullè nelle Annotazioni ai «Canti del popolo Veneziano» del Foscarini. Secondo essi, era qui domiciliata una leggiadra popolana, moglie d'un maestro spadaio. S'invaghì della medesima un giovane patrizio e, per aver modo d'introdursi in sua casa, commise allo spadaio una di quelle piccole daghe, dette a quei tempi «misericordie». Venuto dopo alquanti dì, sotto pretesto di vedere se l'opera era compiuta, e trovata sola la donna, usolle violenza. Non volendo essa sopravvivere alla perdita del proprio onore, afferrò la stessa daga che il marito aveva approntato pel patrizio, e disperatamente si uccise. Il Fontana invece vuole che la denominazione di «Donna Onesta» provenga da una meretrice, detta volgarmente «la donna onesta», perché assai prudente e discreta nell'esercizio del suo mestiere. Narra il citato autore che una scala, ora demolita, metteva ad una porta, ora ridotta a balcone, quanti amavano di conoscere da vicino questo nuovo tipo d'onestà. Il Fontana però sembra che parli di tempi non lontani, ed il Ponte, di cui si fa menzione, trovasi appellato di «Donna Honesta» fino dal 1566, come si può verificare nelle Condizioni di quell'anno. Fra tante opinioni disparate non tralascieremo anche noi di esporre la nostra, meno imaginosa, ma forse più vera dell'altre. Che sarebbe se avesse abitato qui presso qualche donna notissima al vicinato, e chiamata «Onesta» per solo nome di battesimo, come molte e molte solevano chiamarsi nei tempi andati? Egli è certo che un «Zuane Querini» notificò nel 1537 d'appigionare una casa in «contrà di S. Tomà a donna Honesta». Ed il Pivoto («Vetera ac nova ecclesiae S. Thomae Apostoli Monumenta») lasciò scritto che tale parrocchia giungeva co' suoi confini «apud quasdam domus positas apud pontem vocatum di Donna Onesta, quae domus sunt pro indiviso cum paroc. S. Pantaleonis». Al Ponte di Donna Onesta, nella casa dello stampatore Stefano Tramontin, accadde un grave incendio il 15 decembre 1755. Dose (Calle del) a S. Bartolomeo. Vedi Preti. Dose (Calle del) a S. Giovanni in Bragora. Vogliono alcuni che fosse così detta perché conduce al Campo della Bragola, ove sorge il palazzo, che suppongono fabbricato da un doge di casa Partecipazia, o Badoer. Ma ciò è falso, poiché, come diremo, soltanto tardi i Badoeri furono padroni di quel palazzo, cioè quando nessun doge uscì dalla loro famiglia. Vedi Morte (Calle della). Sembra per lo contrario che questa Calle prendesse la denominazione da una spezieria, o farmacia, all'insegna del «Dose». Fino dal secolo XVI, come s'impara dai catasti, esisteva alla «Bragola» una farmacia con tale insegna, e nella Descrizione della contrada pel 1661 si vede chiaramente che essa era situata propriamente sulla «Riva dei Schiavoni», al principio della «Calle del Dose», venendo in quell'anno condotta da un «Cesare Bianchi affittual del Proc. Nicolò Corner». Tale farmacia concentrossi in seguito coll'altra, pure antica, all'insegna del «General», tuttora esistente appiedi del «Ponte del Sepolcro» colla doppia insegna del «Dose», e del «General». Dose (Calle, Corte, Fondamenta del) a S. Marina. Guidano queste strade al palazzo ove nacque il doge Nicolò Marcello, la famiglia del quale, come appare dallo stemma sculto sulle muraglie, altri stabili possedeva in queste vicinanze. Vedi Marcello o Pindemonte (Ponte). Nicolò Marcello venne assunto al principato nel 1473 in età molto avanzata, cioè di 76 anni, e governò un anno e quattro mesi soltanto, dopo cui, giunto a morte, ebbe sepoltura, come vogliono alcuni, alla Certosa, o, come altri, in chiesa di S. Marina. In questa chiesa per certo gli fu eretto un monumento che, per quanto diceva l'epigrafe, conteneva le sue ossa, colà forse posteriormente trasportate. Sotto il doge Nicolò Marcello, Ferdinando re di Napoli, a persuasione dei fuorusciti di Cipro, volse l'animo ad occupare quel regno, ed a toglierlo alla regina vedova Catterina Cornaro, lo zio della quale fu messo a morte dai congiurati. Pietro Mocenigo però, reduce dalla Caramania, giunse a tempo colà con grossa armata, e, domati i ribelli, punì colla morte gli autori dell'omicidio perpetrato sulla persona del Corner. Dose (Calle del) a S. Maurizio. Prese il nome dal doge Nicolò Da Ponte. Ciò ci pare manifesto dalla notifica che la famiglia Da Ponte presentò in occasione della Redecima ordinata nel 1713, ove, parlando di questa Calle, la chiama «la calle del nostro dose». Egli vi fece costruire, od almeno vi compì nel 1578, un palazzo, ed anzi si narra che vi stabilisse dimora, avendosi poco prima incendiato un quarto del palazzo ducale. Questo doge fu uomo versatissimo nelle scienze, ed eccellente nell'arte oratoria, sicché, prima di salire al soglio ducale, sostenne più di 25 ambascerie presso i principali potentati di Europa. Dopo sette anni e quattro mesi di pacifico governo pagò il tributo alla natura nel 1585, e fu sepolto in S. Maria della Carità. Duca (Corte, Rio del) a S. Samuele. Si ha memoria che in questa situazione, ove più anticamente esisteva una fornace, Andrea Corner fino dal 1453 gettava le fondamenta d'un palazzo. Scrive infatti la cronaca del Magno che «Andrea Corner allora facea fabbricar le fondamenta di la caxa a S. Samuel sopra il Canal Grande, dove fu la fornasa». Avendo in seguito la Repubblica donato a Francesco Sforza, duca di Milano, il palazzo in «Campo di S. Polo», posseduto prima dal generale Gattamelata, lo Sforza ne fece cessione ai Corner, ottenendo in cambio il palazzo che si stava costruendo a S. Samuele. Questo cambio effettuossi con Marco Corner, padre di Catterina regina di Cipro, al quale il fratello Andrea aveva probabilmente trasmesso i propri diritti. Perciò la surriferita cronaca del Magno, parlando del duca Francesco, ci avvisa che egli permutò il palazzo di San Polo «cum Marco Corner per la caxa sopra il Canal Grande feva suo fradello». Vedi Corner (Calle). S'accinse allora lo Sforza a continuare la fabbrica sopra il disegno che, come ci avvisa per iscritto il ch. signor Michele Caffi, avevagli presentato nel 1458 l'architetto fiorentino Antonio Averlino, detto Filarete. Ma discordie di stato frastornarono l'intrapresa, sicché il canonico Pietro Casola, che di quel tempo visitò Venezia, dovette dire: «Ben mi doglio che un principio singolare d'un palazzo per casa Sforzesca, posto sopra al Canal Grande, per onor dei Milanesi non sii fornito». Finalmente fattesi più vive le ostilità, la Repubblica confiscò a suo vantaggio i principii dell'ideato palazzo, sopra cui posteriormente innalzossi un più modesto edificio. La «ca' del Duca», che prima venne occupata in parte dall'architetto Bartolammeo Buono, ed in cui poscia Tiziano Vecellio tenne i modelli delle pitture da eseguirsi nelle sale del Maggior Consiglio, fu venduta, per mezzo di pubblico incanto, nel 1525. All'epoca del Sansovino apparteneva alla famiglia Grimani. Non sappiamo con quanto fondamento alcuni asseriscano che nel 1618 era abitata da Alfonso della Queva, marchese di Bedmar, quando, di concerto col duca d'Ossuna vicerè di Napoli, tramò contro la Repubblica la celebre congiura. Duca (Calle del) ai SS. Apostoli. Assunse questo nome perché guida ad un palazzo, il quale appartenne ai Grimani, poscia agli Zeno, che nella seconda metà del secolo XVII lo fecero rifabbricare di pianta, e più tardi a Ferdinando Carlo Gonzaga, ultimo duca di Mantova e del Monferrato. Nacque questi in Revere ai 31 agosto 1652, e salito al trono, si diede in preda ad ogni vizio, dissipando i tesori dell'erario, e ricorrendo per far danaro ai mezzi più turpi. Né meno vergognosa fu la sua condotta in politica. Imperciocché, dopo aver venduto Casale a Luigi XIV nel 1681, seguì, benché feudatario imperiale, le parti dei Francesi nella guerra per la successione di Spagna. Riusciti vittoriosi gli Austriaci nel 1706, egli nel mese di gennaio dell'anno susseguente ritirossi nel suo palazzo di Venezia, ove fece portare quanto possedeva in istatue, pitture, e suppellettili preziose. Senonché, abbandonato dai Francesi nel trattato di pace, si vide, con sentenza 30 giugno 1708, dichiarato dall'imperatore reo di fellonia, e spogliato di tutti i suoi stati. Ferdinando Carlo morì in Padova pochissimi giorni dopo, cioè il 5 di luglio, e venne sepolto in S. Sofia. Non sarà discaro poi a chi volesse conoscere le sorti successive del palazzo, posseduto dallo sciagurato principe, il ricordare che i di lui eredi lo vendettero ai conti Conigli di Verona, laonde la Descrizione della contrada di S. Sofia, fatta nel 1713, pone in «Calle del Duca un palazzo fu del ser.mo di Mantova, et al presente di rag. del Conegio da Verona, vuoto». Due anni dopo esso passò in mano della famiglia Michiel, e quindi del conte Leopardo Martinengo, decesso nel 1884, che fece eredi delle sue sostanze i Donà. Questo palazzo è conosciuto comunemente sotto il nome di «Michiel dalle Colonne» per le colonne che ne sostengono la facciata, e non per la famiglia Michiel, un doge della quale fece trasportare a Venezia le due colonne di granito, erette in «Piazza di S. Marco», sapendosi dal Coronelli che veniva chiamato «dalle Colonne» anche quando era posseduto dagli Zeno. In questo palazzo alloggiarono nel 1716 Federico II elettore di Sassonia, poi re di Polonia, e Carlo Alberto elettore di Baviera colla madre. Esistono a stampa le «Forze d'Ercole» che diedero in questa occasione i Nicolotti sopra barche, in «Canal Grande», sotto le finestre del Palazzo. La «Calle del Duca» restò divisa in due dopo il tracciamento della nuova «Via Vittorio Emanuele», che vi passa per mezzo. Due Aprile (Via) a S. Bartolomeo. Venne formata nel 1884 mediante l'allargamento della «Merceria di San Bartolomeo», o «Marzarieta». Ricorda col proprio nome il giorno due aprile 1849 in cui l'assemblea Veneta decretava di resistere all'Austriaco ad ogni costo. Due Capitelli (Calle dei) a Sant'Apollinare. Da due «capitelli», od altarini, che qui esistevano. Vedi Capitello (Calle del). Due Corti (Calle prima, Calle delle) alla Madonna dell'Orto. In questo sito vi sono due Calli, che conducono ad una Corte, la quale, scorgendosi da due lati, rende duplice aspetto. La medesima circostanza diede il nome eziandio alla «Calle prima» ed alla «Calle seconda delle due Corti» a San Giobbe. La «Calle prima delle due Corti» a San Giobbe attualmente è chiusa. Due Mori (Calle, Ramo dei) a S. Giovanni di Rialto. Non sono denominazioni molto antiche, poiché non si trovano nemmeno nell'ultima Descrizione della contrada, cioè in quella pel 1740. Sembra che dipendano dal Caffè all'insegna dei «Due Mori», che qui si dischiuse negli ultimi anni della Repubblica, leggendosi nella «Gazzetta Veneta» del Gozzi, in data 21 giugno 1760, il seguente avviso: «Nella bottega dei Due Mori, in faccia la chiesa di S. Giovanni Elemosinario di Rialto, si dispensa una bibita chiamata Alfabeto a soldi 5 alla chicchera. Spera il signor fabbricatore di tale invenzione che quelli che lo favoriranno resteranno contenti». Notisi poi che il sottoportico, posto in capo alla «Calle dei Due Mori», chiamavasi per lo passato di «San Zorzi» per le sovrastanti case, già possedute, come dimostra lo stemma, dal monastero di San Giorgio Maggiore. Qui si accese un grave incendio la notte del 1° ottobre 1505. «In questa note» (scrive Marin Sanudo) «achadete in Rialto cossa notanda, che, a hore zercha tre, per una botega di cimador se impiò fuogo in certe boteghe di s. Antonio Zulian, e s. Zuan Maria Malipiero, e altri cimadori, il modo non si sa, in la calle dove è le volte di frati di S. Zorzi per mezo la chiesa di Zuane, adeo brusò assà botege, et volte, et fo un grandissimo fuogo, et un rumor grandissimo in Rialto per le merchadantie erano in li magazeni, che tutti sgombrava» ecc. Due Ponti (Rio Terrà, Fondamenta dei) ai SS. Ermagora e Fortunato. Innanzi che nel 1820 venisse interrato il rivo, incontravansi qui presso due ponti, che erano uniti insieme colà dove si montavano, e poscia allargavansi, mettendo a due Fondamente, la destra delle quali era appellata «Querini», e la sinistra di «S. Leonardo» fino alla chiesa di questo Santo, e «Barzizza» dalla chiesa fino al «Rio di Cannaregio». Crede il Dezan che il «Rio dei due Ponti», il quale correva framezzo a queste due Fondamente, fosse l'antica «Comenzaria» di «Cannaregio», vocabolo interpretato dal Gallicciolli per «canale a mano nel suo principio». La «Fondamenta dei due Ponti» chiamavasi «Balbi» per uno stabile già posseduto, ed abitato da tale famiglia. Nel 1802 «Paolina Clotilde zia, e Marietta nipote Alberegno» notificarono d'affittare il «soler di sotto» d'un loro stabile ai «Due Ponti» a «Domenico Tiepoletto». Questi fu uno dei figli di G. B. Tiepolo, celebre pittore, il quale proseguì nell'arte del padre, e quasi ebbe a raggiungerlo nell'eccellenza. Due Porte (Corte delle). Vedi Do Porte. Due Pozzi (Campo dei) a S. Martino. E' certo che qui esistevano anticamente due pozzi, sebbene oggidì ne esista uno soltanto, poiché il Sabellico, parlando di questi contorni, nomina «Trinitatis phanum, geminosque puteos». L'arte di costruire i pozzi fu una delle prime, come osserva Girolamo Zanetti («Dell'Origine d'alcune arti principali presso i Veneziani») che si esercitarono nelle lagune. Le leggi più antiche circa i medesimi trovansi nei libri «Magnus» e «Capricornus», e datano dal secolo XIV. Narrasi che in tal secolo i Carraresi mandarono ad avvelenare le acque dei pozzi, ma che gli emissarii scoperti, furono presi e squartati. Una legge del 1487 fa vedere che pagavasi una tassa sui pozzi, dicendosi in essa: «denarii puteorum per provvisores Communis exigantur». Trovasi un'altra legge del 1536 con cui la Repubblica, non volendo che alcuno facesse guadagno dell'acqua del comune, escludeva dall'uso dei pozzi pubblici i «Tintori, Barbieri, Triperi, Pellizzeri, Lavanderi, Saoneri, e Luganegheri». Nel 1540, perché i pozzi si potessero alimentare più facilmente, cominciaronsi a costruire dei serbatoi a Lizza Fusina, nei quali si fece scorrere il Brenta per mezzo di un canale artificiale, conosciuto sotto il nome di «Seriola». Nel susseguente secolo XVII, e molto più nel XVIII, si riattarono i pozzi con obbligo ai Capi di Contrada di averne cura, servendosi in ciò del ministero dei facchini. Il fante del Magistrato alle Acque doveva invigilare in proposito, ed infliggere le multe ai negligenti. Assai più numerosi di adesso erano sotto la Repubblica i nostri pozzi, che si aprivano la mattina a terza, e la sera al tocco della campana maggiore di ogni parrocchia. Mentre un giorno del mese di luglio 1483 il patrizio Francesco Dalle Boccole stava parlando «super strata per quam itur in campo duorum puteorum confinii S. Martini» con Andrea Giustinian, che era alla finestra della casa abitata da Girolamo Malipiero, e con altri nobili, Luigi Gofritto, falegname, cominciò insolentemente a guardarlo. Risentitosi il patrizio, disse: «che vardestù?» ed il falegname gli pose le mani sul petto, non fidandosi di far altro per quel momento, perché inerme, ma poscia, provvedutosi di un bastone, gli menò sulla fronte un colpo sì disonesto che il Dalle Boccole il 5 agosto successivo morì, estinguendosi in lui la famiglia. L'uccisore perciò, con sentenza contumaciale 23 ottobre 1483, venne condannato a perpetuo bando. Tre anni dopo, colto a Capo d'Istria, fu condotto a Venezia, e decapitato frammezzo le due colonne della «Piazzetta», avendo prima subìto il taglio della mano «in loco delicti». Abbiamo alcune altre strade, che pel motivo medesimo si chiamano «dei due Pozzi», fra cui una «Ruga» a S. Sofia, le case della quale erano tutte possedute dal doge Marin Falier, e nel 1355 furono comperate all'incanto dalla cittadinesca famiglia Ziliolo. Due Torri (Rio delle) a S. Maria Mater Domini. Ricorda il Dezan che questo rivo trasse il nome da una casa con due torri, la quale vi si trovava d'appresso nel 1105, epoca del famoso incendio sviluppatosi in Venezia. Sembrerebbe però che la casa di cui si parla esistesse nella medesima condizione anche più tardi, poiché «Pietro Bernardo fo de s. Girolamo» disse nella notifica dei suoi beni presentata l'anno 1514 ai X Savii: «In Santa Maria Mater Domini ho una parte di la casa da le do tore». Tra i nostri avi eravi anticamente il costume d'aggiungere le torri ai palagi, come si fece, quantunque ad altro fine, in parecchie città d'Italia, e precipuamente ove ebbero luogo le fazioni e le civili discordie. Secondo un'antichissima cronaca, quando lo imperatore Ottone III, verso il mille, venne secretamente a Venezia, volle occupare col suo seguito la torre orientale del ducale palazzo. Da ciò si ricava che questo palazzo, il quale deve essere quello fatto costruire dal doge Pietro Orseolo, il Santo, verso l'anno 978, era turrito, e, poiché si cita l'orientale, contava forse quattro torri, corrispondenti ai quattro punti cardinali. Del pari, la casa assegnata al Petrarca, situata sulla «Riva degli Schiavoni», presso la chiesa del Sepolcro, ed appartenente alla famiglia Molin, aveva, per testimonio dello stesso poeta, «geminas angulares turres», onde dicevasi il «Palazzo delle due torri». Duodo o Barbarigo (Fondamenta) a S. Maria Zobenigo. Convien dire che la famiglia Duodo fissasse in tempi alquanto antichi il suo soggiorno in parrocchia di Santa Maria Zobenigo, poiché un Leonardo Duodo da Santa Maria Zobenigo dal 1265 al 1302 era del Consiglio. Inoltre gli eredi di Simeone Duodo, e Pietro Duodo da S. Maria Zobenigo contribuirono prestiti allo Stato nel 1379. La Morea, o secondo altri, la Germania, fu culla di questa famiglia, gloriosa principalmente per un Pietro capitano fino dal 1483 dell'armata sul lago di Garda, e nel 1495 guidatore dei cavalli albanesi alla giornata del Taro; per un Francesco, grande nel 1571 alla battaglia di Lepanto, e per un altro Pietro, figlio dell'accennato Francesco, uomo dotto ed onorato di molte ambascerie. Egli essendo di ritorno nel 1588 dalla Polonia, insieme allo architetto Scamozzi, commise a quest'ultimo di rifabbricargli il palazzo a S. Maria Zobenigo, sulla Fondamenta che perciò venne appellata «Duodo». Pietro costrusse pure le sette chiese presso Monselice, a similitudine delle sette basiliche di Roma, e morì nel 1611. Il palazzo Duodo a S. Maria Zobenigo è nominato nei «Diarii» del Sanudo in occasione d'un banchetto che il 20 febbraio 1532 M. V. diede colà «Pietro Duodo q. Francesco», banchetto in cui si imbandirono «pistachee, calisoni, pernise, fasani, paoni, colombini e tutto quel si pol dar». Tra i principali incendii che successero in Venezia il Gallicciolli nota quello del 3 decembre 1741 in «Ca' Duodo a S. M. Zobenigo». La «Fondamenta Duodo» a S. Maria Zobenigo chiamasi pur anche «Barbarigo» da un'altra patrizia famiglia, anticamente signora di Muggia in Istria, la quale, come tramandano i cronisti, assunse il cognome di Barbarigo, dopoché Arrigo, uno de' suoi eroi, avendo nell'880 sconfitti i Saraceni, formossi delle loro barbe recise una corona, ed in tal guisa ritornò trionfante ai paterni lari. I Barbarigo, venuti tosto dopo a Venezia, fondarono, insieme ai Jubanici, la chiesa di S. Maria Zobenigo, dal che si può dedurre che fino da quell'epoca si stabilissero in detta contrada. Essi fondarono o ristaurarono altre delle nostre chiese, e produssero due vescovi, un patriarca di Venezia, e tre cardinali, fra i quali il beato Gregorio, che nacque a S. Maria Zobenigo, sulla Fondamenta «Duodo» o «Barbarigo», e che nel 1691 rinunciò all'onore della tiara pendente allora sul di lui capo. Uscirono inoltre dalla medesima famiglia due dogi fratelli e, fra molti distinti guerrieri, quell'Agostino, che operò prodigi di valore nella battaglia di Lepanto, in cui, colto da un dardo nell'occhio, morì esultante alla vista dell'eccidio nemico. I Barbarigo imposero il nome anche al «Sottoportico e Calle Barbarigo», situati presso la «Fondamenta Duodo e Barbarigo», a S. M. Zobenigo, nonché ad altre strade di Venezia. Dai (Sottoportico, Ponte, Rio, Fondamenta dei) a S. Marco. E' tradizione che questo ponte, colle strade vicine, abbia derivato il nome dal gridare del popolo «dai! dai!» (dalli! dalli!) dietro una parte dei congiurati di Bajamonte Tiepolo, che, dopo la sconfitta riportata il 10 giugno 1310, fuggivano dalla «Piazza di S. Marco». E' da considerarsi però che in tutti gli antichi documenti esso ponte non è chiamato «dei Dai», ma «dei Dadi», per cui si può ritenere che qui si vendessero dadi da giuoco, o si costumasse di giuocare ai medesimi. Infatti il «Rio dei Dai» in una legge del 2 settembre 1433 è chiamato «Rivus pontis Taxillorum», ed il ponte nel Sabellico «Tesserarum pons». Inoltre un «Nicolò da li dadi» nel 1366, ed un «Piero da li dadi» nel 1440, ambidue confratelli della scuola della Misericordia, abitavano in parrocchia di S. Geminiano, a cui le località erano anticamente soggette. Sappiamo poi che fino dai tempi più remoti giuocavasi ai dadi per le strade di Venezia, ed abbiamo alcune leggi del secolo XIII che proibivano di far ciò sotto il portico della chiesa di S. Marco, e sotto il palazzo ducale, allorquando stava radunato il Maggior Consiglio. Il «Ponte dei Dai» aveva l'altro nome del «Malpasso», ed anche in ciò varia è la sentenza delle cronache, poiché alcune dicono che tal nome sorse nel 1310 in allusione alla sconfitta e fuga dei congiurati, ed altre che esisteva anche in antecedenza. Dario (Sottoportico e Corte) al Gesù e Maria. Molti stabili erano qui posseduti, secondo si legge negli Estimi del secolo trascorso, da un ramo della cittadinesca famiglia Dario, la quale aveva la sua casa da «statio» respiciente col prospetto il rivo della Croce. Questa famiglia venne dalla Dalmazia, e fino dal secolo XV fu celebre per un Giovanni, secretario del Senato, che sostenne le veci di Bailo a Costantinopoli, e nel 1479 ratificò il trattato di pace col Turco, laonde ricevette in dono dalla Repubblica una possessione in Noventa Padovana, e dal sultano tre vesti di drappo d'oro. Egli fabbricò, od almeno rinnovò il palazzo di S. Gregorio, che porta sulla base l'iscrizione: Genio Urbis Joannes Darius, e che poscia, per eredità, venne posseduto dai Barbaro, per cui «Campiello Barbaro», si denomina una prossima via. I Dario fioriscono tuttora coll'aggiunto Paolucci, avendo un Camillo Dario sposato nel 1766 una Maria Gioseffa Paolucci, e dato cagione che le facoltà dei Paolucci passassero nella propria famiglia. Dàndolo (Sottoportico e Corte) a San Luca. Giacciono dietro un avanzo d'antico palazzo, che guarda col prospetto la «Riva del Carbon», presso il quale l'abate Zenier fece scolpire un'epigrafe indicante che qui fu la casa d'Enrico Dandolo. Il fatto, quantunque manchi di prova sicura, non sembra improbabile poiché Enrico, secondo i cronisti, nacque in parrocchia di S. Luca e, fino dai tempi più remoti, le case contermini erano tutte dai Dandolo possedute. In queste case arse un grande incendio il 25 novembre 1523, descritto dal Sanudo, e più tardi abitò il famoso Pietro Aretino. Vedi Carbon (Riva ecc. del). La famiglia Dandolo, antica e tribunizia, signoreggiò Gallipoli, Andro, Riva, ed altri luoghi della Grecia. Ebbe fino dal 1130 un Enrico patriarca di Grado, zio di quell'altro Enrico, eletto doge nel 1192 e celebre pel conquisto di Costantinopoli. Dei due figli del doge Enrico, Fantino fu patriarca di Costantinopoli, e Rainieri fu procuratore di S. Marco, e valoroso guerriero. Egli morì in Candia per freccia avvelenata l'anno 1213, nell'atto che accorreva a sedare i tumulti di quell'isola. Da lui nacquero quel Giberto, che nel 1260 prese ai Genovesi quattro galere in un fatto d'armi, ove restò morto il Grimaldi capitano nemico; e quella Dandola che contrasse matrimonio col re della Rascia. Anche Giovanni, figliuolo di Giberto, venne eletto doge di Venezia nel 1280, e fu padre di quell'Andrea, che essendo stato nel 1295 sconfitto, e fatto prigione dai Genovesi, diede di cozzo più volte col capo nell'albero della galea, ed in tal guisa si tolse di vita. Altri due dogi della famiglia Dandolo conta Venezia, cioè Francesco, nel 1328, ed Andrea nel 1342. Il primo era chiamato «cane» per soprannome avito, e non, come dicono alcuni, perché, spedito, prima di salire al principato, quale ambasciatore al pontefice Clemente V, gli si gettasse ai piedi con una corda al collo, supplicandolo a liberar i Veneziani dall'interdetto, e fosse pareggiato dai cortigiani beffardi al cane, accorso a raccogliere le micche sotto la mensa del padrone. Bello della persona, oltreché prudente e valoroso, ebbe a' suoi voleri Isabella Fieschi, moglie di Luchino Visconti principe di Milano, venuta a Venezia per la fiera dell'Ascensione, ed in quella circostanza datasi in preda alla più scandalosa licenza di costumi. Il secondo, uomo dottissimo, scrisse una cronaca veneziana, amò grandemente i letterati, e stimò di molto l'amicizia del Petrarca. La brevità che ci abbiamo prefisso ci impedisce di parlare di Leonardo Dandolo, figlio del doge Andrea, che sostenne molte ambascierie, e concorse più volte al ducato; di Fantino, figlio di Leonardo, legato a «latere» di papa Eugenio IV, e nel 1448 vescovo di Padova; di Gerardo Dandolo, capitano illustre nel 1438 contro il duca di Milano; di Pietro vescovo di Vicenza nel 1501, e nel 1507 di Padova; di Zilia, per ultimo, moglie del doge Lorenzo Priuli, incoronata con gran pompa nel 1557. I Dandolo, che eziandio furono illustri per varii letterati, lasciarono memoria di sé in varie strade di Venezia. Degolin (Calle, Corte del) a S. Barnaba. Leggasi «Dogolin», come negli Estimi, dalla famiglia cittadinesca Dogolin, o Dugolin, che faceva per arma due leoni rampanti, l'uno di prospetto all'altro. Un «Zuane Dogolin» da S. Barnaba venne ascritto alla confraternita di S. Giovanni Evangelista nel 1459. Un Marino Dogolin presentò nel 1537 ai X Savii la Condizione dei proprii beni, i quali consistevano in sei case situate a S. Barnaba. Francesco di lui figlio notificò pur esso nel 1566 questi stabili, e morì prima del 1582, poiché «Honesta Dogolin fo de S. Marin, e r.ta del q. s. Domenico Zottarello» dichiarò in quell'anno di possedere una «casa con il suo magazen, già casetta, sotto, in contrà di S. Barnaba, che soleva essere del q. Francesco Dogolin fo mio fratello», con altre cinque case nella medesima contrada, ereditate dalla «q. M. Cecilia Dogolin herede della q. M. Orsa Dogolin». La suddetta Onesta, dopo d'aver accennato alle spese cui doveva sottostare pei ristauri delle proprie fabbriche, ed alla difficoltà di riscuotere certo suo livello che aveva a Peschiera, conchiuse dicendo: «Altro non mi trovo al mondo; son vecchia, stropiata; vado con le crozole che mai vado fuori di casa; convengo tener una massera per necessità, per non potermi mover; onde che per tutte le cose soprad.te non posso sostenermi altro che miseramente et impossibilmente». Essa morì il 20 gennaio 1596 M. V., leggendosi sotto questa data nei Necrologi Sanitarii: «La mag.ca m.a Onesta Dogolin relita del mag.co s. Domenego Sotarelo, de anni 80, da vegezia, ano uno, S. Barnaba». Delfina (Corte) a Castello. Scolpiti sopra l'ingresso scorgonsi i tre delfini, arma della famiglia Delfina, che poscia si corruppe in Dolfin. Essa ebbe per capostipite uno dei Gradenigo, soprannominato «Delfino» o per la sua gibbosità, o per la sua singolare perizia nel nuotare. Fra i vari distinti di questa famiglia giova trascegliere Delfino circa il 434 patriarca d'Aquileja; Daniele gran capitano nella prima crociata; Giacomo generale nel 1260 di 57 galere contro i Greci collegati coi Genovesi, e poscia capitano contro il tiranno Ezzelino; Angelo nel 1329 vescovo di Venezia; Orso nel 1361 patriarca di Grado; Giacomo nell'anno medesimo provveditore generale in Albania, e poi duce di 37 vascelli contro i corsari Greci, a cui prese 6 navi; Giovanni eletto doge nel 1356 mentre era provveditore in Trevigi, assediata dagli Ungari, il quale, non potendo ottenere un salvacondotto dai nemici per recarsi a Venezia, mise all'ordine 500 cavalli, e nottetempo partito, arrivò sano e salvo a Malghera, ove fu accolto con somma letizia dai senatori; Michele che, rinchiuso nella medesima occasione in Treviso, combattè vittorioso corpo a corpo con un guerriero nemico, e poscia nel 1370, 1371 e 1375 fu capitano generale di armata; Leonardo nel 1392 vescovo di Venezia, e nel 1401 patriarca d'Alessandria; Zaccaria capitano nel 1509 di Padova stretta dall'armi dell'imperatore Massimiliano; Gian Pietro, che fiorì circa il 1560, vescovo di Zante e Cefalonia; Giovanni nel 1563 vescovo di Torcello, e nel 1579 vescovo di Brescia; Zaccaria nel 1565 cardinale; Luigi vescovo della Canea, morto nel 1587; Giovanni cardinale nel 1603; Dionisio, suo fratello, nel 1606 vescovo di Vicenza; Giuseppe, nipote di Dionisio, nel 1616 vescovo di Pafo; Giovanni vescovo di Belluno nel 1626; Giovanni nel 1658 patriarca d'Aquileja, e nel 1667 cardinale; Pietro Antonio nel 1684 vescovo di Capo d'Istria; Daniele vincitore dei Turchi a Metelino nel 1690; Daniele nel 1698 vescovo di Brescia, e nel 1699 cardinale; Dionisio nel 1699 patriarca d'Aquileja; Daniele, finalmente, cardinale nel 1747. Diamanter (Corte del) a S. Fosca, presso la «Fondamenta del Forner». Un «Zuane Zoppis diamanter», che abitava sulla «Fondamenta del Forner» a S. Fosca, venne citato il 21 aprile 1790 innanzi gli «Avogadori di Comun» per dare informazioni circa la famiglia Lanzetti, un individuo della quale chiedeva d'essere abilitato all'uffizio di cancelliere. I «Diamanteri» si dividevano in «Diamanteri da duro» (lavoratori di diamanti) e «Diamanteri da tenero» (lavoratori di pietre preziose, e gemme colorate). Sì gli uni che gli altri formavano un colonnello degli Orefici, ed erano numerosi, massimamente a Rialto, ove lavoravano non nelle botteghe terrene, ma nelle volte. Diamanti (Calle dei) a S. Marta. Forse dall'arte dei «Diamanteri», di cui abbiamo parlato nel nostro articolo antecedente. L'anagrafi pell'anno 1761 annovera molti «Diamanteri» domiciliati in parrocchia di S. Nicolò, a cui il circondario di Santa Marta era soggetto. Diavolo (Sottoportico e Corte del) a S. Maria Mater Domini. Crediamo provenuto il nome a queste strade dalla veramente diabolica oscurità della situazione. Anche un Ponte a S. Severo, forse per essere stato anticamente scosceso e dirupato, chiamasi «del Diavolo», e per esso la Calle vicina. Diedo (Fondamenta, Fondamenta e Ponte, Campiello) a S. Fosca. Il prossimo palazzo, che apparteneva alla patrizia famiglia Diedo, sorse nel secolo trascorso sopra disegno di Andrea Tirali. Non è improbabile però che altro ve ne fosse in antecedenza nella situazione medesima, sapendosi che fino dal secolo XIV abitavano i Diedo in parrocchia di S. Fosca. Questa famiglia, venuta da Altino nel 790, va meritatamente celebrata per quell'Antonio che nel 1431 guerreggiò contro i Genovesi, ed assistette alla difesa di Costantinopoli, ove pure ritrovavasi un Luigi Diedo che, avvenuta nel 1453 la resa della città agli infedeli, condusse in salvo le galee stanziate nel porto. Vittore Diedo figlio di Luigi, lasciato come ostaggio nelle mani dei Turchi, potè col giovanile sembiante, e col dolce suono d'un liuto, da lui stesso costrutto, aggraziarsi in tal guisa il sultano da ottenere il permesso di venire per brevi istanti in patria ad abbracciare i parenti. A tale annunzio questi gli andarono incontro con gran numero di barche, dal quale spettacolo intenerito il garzone, non potè resistere alla soverchia allegrezza, e spirò d'improvviso nel 1480 fra le braccia de' suoi. Un Pietro Diedo, altro figlio di Luigi, essendo provveditore nel 1482 dell'esercito che operava in Romagna a favore di Sisto IV, ed avendo sfidato a campale giornata il duca di Calabria, questi gli fece rispondere che, se era valoroso guerriero, ve l'obbligasse per forza, laonde il Diedo, benché i nemici fossero in alloggiamenti fortissimi, li ridusse a tale da non poter rifiutare il combattimento, in cui trovando, a bella prima, sorte contraria, sceso da cavallo, e postosi di fronte alle proprie truppe, tanto fece che potè riordinarle, e riportar piena vittoria. La famiglia Diedo produsse altri capitani di vaglia, varii letterati, tre vescovi, ed ai nostri tempi Antonio celebre architetto. Sappiamo che nel 15 febbraio 1622 M. V. facendosi festa di nozze in ca' Diedo a S. Fosca, insorse questione in cui rimasero feriti Giacomo Barbaro e Girolamo Donà. Dogana (Traghetto della) a S. Marco. E' così appellato perché S. Marco mette alla Dogana della Salute. In Venezia sino all'anno 1414 tutte le merci si scaricavano, e si ponevano a bilancia presso S. Biagio di Castello. Ma poiché, per la grande affluenza di esse, il luogo divenne angusto, si edificarono due dogane, l'una, pei generi provenienti dalla terraferma, a Rialto, e l'altra, pei generi provenienti dal mare, sopra un lembo di terreno che si aveva formato con una velma, o palude fino dal 1313, ovvero 1316, e che chiamavasi «Punta del Sale» pei magazzini di sale colà eretti, nonché «Punta della Trinità» perché prossimo alla chiesa e monastero della Trinità, distrutti quando nel 1631 si innalzò colà la chiesa di S. Maria della Salute. La «Dogana da mar», che era fornita d'una torre, visibile nella Pianta di Venezia attribuita ad Alberto Durero, si riattò nel 1525. Ebbe poi una rifabbrica nel 1675 sul disegno dell'architetto Benoni. Dolera (Calle) a S. Aponal. Vedi Era. Dolfin (Calle) a S. Pantaleone. La Descrizione della contrada di S. Pantaleone pel 1740 la chiama «Calle di Ca' Dolfin», annotando che in essa abitavano in casa propria i «N. U. Zuane e fratelli Dolfin». Il palazzo, a cui questa Calle conduce, venne fondato dalla famiglia Secco, che lo vendette nel 1621, per 12 mila scudi, al cardinale Giovanni Dolfin. Questo palazzo, che ha la sua facciata sopra il «Rio di S. Pantaleone», trovasi lodato nell'Aggiunte del Martinioni alla «Venezia» del Sansovino. Esso fu scelto l'11 febbraio 1709 per dare una festa a Federico IV re di Danimarca, venuto a visitare Venezia. Non essendo di proporzionata grandezza, si fabbricò nel cortile una sala di legno, mettendola in comunicazione colle stanze. La nobiltà vi si trattenne fino alle due dopo la mezzanotte, ora danzando, ora ascoltando i concerti delle viole e dei violini, ora ammirando lo sfarzo degli addobbi e dei lumi. I Dolfin da S. Pantaleone si estinsero in un Daniele, uomo assai colto, il quale, sotto la Repubblica, coprì varie cariche, e fu nel 1797, ultimo anno della sua vita, uno dei Municipalisti. Il palazzo Dolfin a S. Pantaleone, acquistato dall'architetto milanese G. Battista Brusa, venne nel 1876 acconciamente ristaurato. Per la famiglia Dolfin, donde ebbero il nome altre vie, vedi Delfina (Corte). Donà (Ponte, Ramo) sulle «Fondamente Nuove». La patrizia famiglia Donà dalle Rose possiede tuttora presso questo ponte un palazzo del quale il doge Leonardo Donà pose la prima pietra il 24 marzo 1610. La fabbrica, architettata, come credesi, sul disegno del celebre fra' Paolo Sarpi, sarebbe riuscita più splendida e grandiosa se il concetto del fondatore non fosse stato sempre mai combattuto, ed attraversato dal fratello Nicolò. Narrasi che da ciò nascessero varii alterchi tra i due fratelli, e che, in conseguenza d'uno di questi, il doge, colto d'atrabile, cessasse di vivere per apoplessia nel 1612. Allora il fratello ed i nipoti compirono alla meglio il palazzo come si vede. Vogliono i cronisti che i Donato, o Donà, sieno discesi da un ceppo comune, benché si dividessero in due linee, le quali in tempi antichi trasmigrarono in Venezia da diversi paesi, ed avendo innalzata arma diversa, si denominarono volgarmente l'una dalle «Tresse», e l'altra dalle «Rose». Le glorie di questa famiglia consistono in tre dogi, Francesco nel 1545, Leonardo nel 1606, e Nicolò nel 1618; in molti dignitarii della chiesa, fra cui Lodovico, eletto cardinale nel 1378 da Urbano VI, ma poscia, per sospetto di tradimento, fatto annegare, come si dice, con altri cinque cardinali dal pontefice medesimo; finalmente in parecchi valorosi guerrieri, e letterati distinti. Tralignarono poi dalle glorie avite quell'Andrea Donà, il quale, corrotto dall'oro del duca di Milano, venne posto in carcere nel 1447, né ottenne la liberazione, quantunque vivamente sollecitata dall'imperatore Federico III; quel Giuseppe che, convinto di intelligenza con gli Spagnuoli, fu pubblicamente appiccato nel 1601; quell'Antonio che, sotto un'accusa «de peculatu», prese la fuga nel 1619, ed ebbe il bando da tutto il Veneto dominio; e quel Paolo, che, avendo ucciso, per gelosia d'una monaca, nel 1704 Pietro Minotto, venne pur egli bandito, ma poscia ritornò in patria graziato. I Donà, secondo alcune cronache, edificarono la chiesa di S. Fosca, e per certo ne fecero sorgere l'attuale prospetto. Ristaurarono pure, unitamente ad altre patrizie famiglie, la chiesa di S. Giustina, e lasciarono il loro nome a più strade di Venezia. Donzella (Ramo Calle, Calle, Calle Larga della) a San Matteo di Rialto. Qui presso nel 1740 esisteva l'«hosteria della Donzella», condotta da un «Pietro de Pieri», che pagava pigione pello stabile al «N. U. Filippo Donà». Un'altra osteria all'insegna della «Donzella», condotta nel 1740 dal medesimo «Pietro de Pieri», e posseduta dal monastero dell'Umiltà, diede il medesimo nome ad alcune vie poste presso la «Ruga dei Spezieri», nell'antico circondario di San Giovanni Elemosinario. Dorsoduro (Sestiere di). «Dorsoduro» era un gruppo di isolette, il quale comprendeva i circondari di S. Nicolò dei Mendicoli, dell'Angelo Raffaele, dei Ss. Gervasio e Protasio, di San Basilio, di S. Agnese ecc., e, come vogliono alcuni, eziandio di S. Benedetto, o di S. Ternita. E' fama che venisse così appellato perché il suo terreno elevavasi sopra il circostante a guisa di dorso o schiena, ed era nel medesimo tempo molto sodo e consistente. L'altra appellazione che aveva di «Scopulo» (scoglio) confermerebbe la sua elevatezza e consistenza. Il Braccolani invece («Breve notizia della isola di S. Nicolò dei Mendicoli») fa provenire «Dorsoduro» o, come in qualche cronaca è chiamato, «Dossoduro», dalla famiglia Dosduri, una delle prime che da Padova sarebbe venuta a farvi dimora. Il Negri finalmente («Soggiorno in Venezia di Edmondo Lundy») da «deorsum turris» (al di là della torre), congetturando che il «Castel Forte» di S. Rocco, al di là del quale stendesi «Dorsoduro», fosse munito di qualche grossa torre, giusta il costume dei tempi. Questa parte della città era nei primi tempi semideserta perché esposta all'incursioni dei barbari. Ma Orso Partecipazio, eletto doge nello 864, la destinò a domicilio di quegl'uomini che erano addetti al suo servigio, e che denominavansi «excusati» perché scusati e liberi da ogni altro officio, ovvero quasi «scudati», o scudieri. Qui pure si concentrarono le famiglie dei Basegio, Polani, e Barbolani, già bandite per odio di parti, e poscia richiamate dall'esilio ad istanza di Lodovico imperatore. Da tutti i circondari componenti l'antico Dorsoduro, eccettuati quelli di San Benedetto e di Santa Ternita, se pure v'erano compresi, formossi l'attuale «Sestier di Dorsoduro», il quale abbraccia per soprappiù la Giudecca, e la vicina isola di San Giorgio Maggiore. Dòaneta (Ramo) ai Frari. Esisteva in questo sito la «Dòaneta» (piccola dogana) «dell'Olio», il locale cioè ove consegnavasi e misuravasi l'olio, che veniva dispensato ai «Postieri», e «Botegheri» della città. La «Doaneta dell'Olio» era stabilita nel 1713 a S. Apollinare in «Corte Petriani». Dòdolo (Corte) a S. Gregorio. Un Giovanni Dodolo figura in un documento del 1120, riportato da Flaminio Corner alla chiesa di S. Cipriano di Murano. Ignorasi poi se la presente denominazione derivi dall'indicata famiglia, oppure, come sembra maggiormente probabile, da un'altra meno antica del medesimo cognome. Dragan (Calle) ai SS. Apostoli. Varie famiglie Dragan avevamo in Venezia. Troviamo un «Galeazzo Dragan da S. Apostoli» ascritto alla scuola di S. Maria della Misericordia («Mariegola» dal 1308 al 1499). «Un Antonio q.m Domenico Dragan» dai SS. Apostoli testò il 7 giugno 1457 in atti Nicolò de Varsis. E leggiamo ancora che la famiglia Memmo notificò nel 1566 di possedere una casa ai SS. Apostoli in una corte «dov'era il gioco di balla del Dragan per il passato». Drasi. Vedi Drazzi. Drazzi (Calle) a S. Francesco della Vigna. E' chiamata negli Estimi «Calle dei Drasi», e posta sotto la parrocchia di S. Ternita. Un Orazio Draso così incominciò la condizione dei proprii beni presentata nel 1566 ai X Savii: «Io Horatio Draso stago in contrà S. Ternita in Calle di Drasi». |
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