Fabbrica dei tabacchi (Fondamenta della) a S. Andrea. Anticamente la fabbrica dei tabacchi si stabilì alla Madonna dell'Orto, poscia sulla «Fondamenta delle Penitenti», e finalmente a S. Andrea in un locale chiamato il «Cao», corruzione di «Capo», perché posto all'estremità di Venezia. Qui esiste tuttora. La repubblica dava il tabacco in appalto, e si ha memoria che il primo appaltatore fu un Davide Daniele da Pisa. Ma il più celebre di tutti fu nel secolo decorso il conte Girolamo Manfrin, il quale, esercitando la ferma del tabacco per tutto lo stato Veneto, straricchì, laonde possedeva 3000 campi in Dalmazia, nonché luoghi di delizia a Paese e Santartien, e fra noi un palazzo in Cannaregio con magnifica galleria. Vedi Veniera (Calle). Fabbro (Ramo del) a S. Maria Mater Domini. Un fabbro ferraio occupava la bottega che giace all'ingresso di questo Ramo, e che ora è volta ad uso di fruttaiuolo. Pell'arte dei fabbri vedi Fabbri (Calle dei). Fabbro (Calle del) o della malvasia a S. Barnaba. Esiste ancora in questa calle una bottega da fabbro. Della bottega da «malvasia» nessuna traccia. Vedi Fabbri (Calle dei), e Malvasia (Calle della). Falier (Corte) a S. Vitale. Antichissimo è il domicilio della famiglia Falier in parrocchia di S. Vitale. Da San Vitale era quel Giacomo Falier soprannominato «el grando», eletto nel 1269 procuratore di S. Marco. E probabilmente i Falier abitavano in questo circondario fin dal 1084, in cui la chiesa dedicata a San Vitale fu, per quanto si legge, eretta dal doge Vitale Falier. Originaria di Fano, passata poscia a Padova e Venezia, ebbe tale famiglia tribuni, e tre dogi. Vitale, di cui si disse più sopra, scoprì nel 1094 il corpo di S. Marco, e ne fece consecrare la chiesa, nell'atrio della quale fu sepolto due anni dopo, a destra di chi entra per la porta centrale. Ordelafo di lui figlio, assunto al principato nel 1102, dimostrò grande valore nell'armi, fece passaggio oltremare in aiuto di Baldovino, re di Gerusalemme, prendendo Acri, riacquistò Zara, sconfisse i Padovani, e nel 1117 morì da eroe in una lotta contro gli Ungheri. Marino, offeso nell'onore maritale da un giovane patrizio, ed ottenuta lieve soddisfazione della patita ingiuria, tramò una congiura allo scopo di farsi assoluto signore di Venezia, ma fu scoperto e decapitato il 7 aprile 1355. Le cronache ce lo dipingono come uomo iroso a segno che, essendo prima di venir fatto doge, podestà in Trevigi, diede uno schiaffo al vescovo di quella città, non accorso per tempo alla processione del Corpus Domini. La famiglia Falier fondò alcune chiese di Venezia, e produsse militari valenti, vescovi, e patriarchi. Il palazzo della medesima a San Vitale, posto nella «Corte» che da noi viene illustrata, e che presentemente è chiusa da ferreo cancello, sebbene riordinato fra il secolo XVII e XVIII, conserva ancora, dice il Paoletti nel «Fiore di Venezia», qualche vestigio della sua condizione primiera. Dapprima aveva due scale, ma ora ne ha una soltanto, essendo stata distrutta quella sopra la quale stava la statua dell'infelice Marino priva di testa. In questo palazzo si conserva oscuro ed a pezzi il cenotafio, scolpito dal celebre Canova in onore di Giovanni Falier, suo generoso mecenate. Anche una prossima Calle, con altro nome appellata «Vitturi», per la quale vedi Vitturi (Ponte), nonché un'altra Calle a San Pantaleone devono il nome ai patrizii Falier. Falier (Sottoportico) ai Ss. Apostoli. Fenice (Ponte, Fondamenta, Rio, Fondamenta della) a S. Maria Zobenigo. Una nobile società, proprietaria dapprima del teatro di S. Benedetto, volle erigerne uno nuovo in questo sito sopra disegno del Selva. Gettandosene le fondamenta, si rinvennero un grosso tronco d'albero colle radici ancor fitte nel suolo a dodici piedi sotto il livello del solito flusso, ed un graticcio di vimini ad uso di siepe, indizii, secondo il Filiasi, d'un orto, che colà esisteva ai tempi Romani. Questo teatro, che appellossi della Fenice, fu incominciato nel 1791, ed in 18 mesi compiuto. Veniva aperto per la prima volta il 16 maggio 1792, giorno dell'Ascensione, col dramma: «I Giuochi d'Agrigento», poesia d'Alessandro Pepoli, musica di Giovanni Paisiello. Dopo quarantacinque anni esso ardeva di terribile incendio la notte del 13 decembre 1836, non rimanendo in piedi che le sole muraglie d'accerchiamento, insieme all'altra interposta di traverso, le quali per la loro grossezza poterono resistere al peso del tetto crollato. In soli sette mesi però riedificavasi per opera dei fratelli Meduna, che migliorarono in qualche parte il disegno del Selva. Il teatro della Fenice ebbe anche negli ultimi tempi un ristauro nella parte ornamentale, eseguito da uno dei fratelli Meduna, per cui la sera di S. Stefano del 1854 si riaprì alla curiosa impazienza del pubblico. Fenice (Campiello della). Vedi Malvasia vecchia. Flaminio Corner (Campiello) a S. Canciano. Fondamente nove. Vedi Nuove (Fondamente). Fontego (Ramo del) a S. Silvestro. Dal pubblico fondaco della farina che qui esisteva al tempo della Repubblica, e che, secondo i cronisti, venne eretto per la prima volta nel 1178 sotto il doge Orio Mastropiero. Leggesi nel Savina: «In questo tempo questo dose fese far el fontego de la farina a Rialto». Esso nel 1310 venne, con altri uffizii di Rialto, saccheggiato dai congiurati di Baiamonte Tiepolo. Il Sabellico lo chiama «farinarium emporium», ed aggiunge: «incredibile relatu quanta vis in eo venalis annonae adsit, quaeque libera occasio mercari volentibus». Apprendesi dal Sanudo che nel terribile incendio successo in Rialto il 10 gennaio 1513 M. V. s'apprese il fuoco anche a questo fondaco, «et poi entroe in caxa di s. Zuan Sanuto lì appresso, qual si bruxoe. Et prima era bruxata quella di s. Hieronimo Tiepolo cao di X, che era contigua al fontego predetto». Altro incendio patì questo fondaco nel 1623 con danno di 25 mila ducati. Ad esso presiedevano i «Signori al Formento in Rialto», e da esso prese il nome anche il prossimo «Rio del Fontego», ora interrato. L'arte dei Fonticai aveva anticamente scuola di divozione in chiesa di S. Silvestro, la quale però nel 1530 venne trasportata a S. Apollinare, ove raccoglievasi all'altare dedicato alla Natività di Maria Vergine. In quella chiesa aveva pure la tomba con epigrafe illustrata dal Cicogna. Fontego (Sottoportico e Corte del) a S. Margherita. In «Campo di S. Margherita» eravi nel 1713 la «bottega serve per fontego» (fondaco) «di farina, affidata alli fontegheri» (fonticaj), e posseduta dalla «sig.ra Laura relita Antonio Badoer». Oltre i due fondachi principali di S. Marco e di Rialto, il governo aveva fatto aprire in varie parti della città altri fondachi minori, acciocché la popolazione meno doviziosa potesse provvedersi di farine ad ogni momento, ed a prezzo determinato. Il fondaco di S. Margherita fu istituito nel 1704, poiché nel «Catastico delle Leggi in materia di Biave» (Codici 738-739, Classe VII della Marciana) trovasi scritto: «1704, 7 Giugno. In Pregadi, Capitolar Mag.to, c. 133: Siano aperti quattro fontici sparsi per la città a comodo del popolo, cioè Zuecca, Castello, S. Margherita, e Rio Terrà». Un «Ponte» ed una «Calle del Fontego» abbiamo pure a S. Giustina così denominati, secondo la Descrizione di quella contrada pel 1740, dal «Fontico di farina, padron Vincenzo da Riva». E nel Catastico sovraccitato troviamo: «1731, 4 decembre. Terminazione Biave. Sia aperto un fontico a S. Giustina». Rammenteremo come al «Ponte del Fontego» a S. Giustina abitava quel Marcantonio Morosini che, eletto Provveditore di Campo nel 1499 contro Lodovico Sforza duca di Milano, spogliollo del dominio e, presa Cremona, s'impadronì dell'insegne ducali, trasportandole a Venezia, e collocandole a trofeo della propria abitazione. Egli è quel medesimo, che essendosi abbattuto in due ambasciatori fiorentini, e non volendogli questi cedere la via, ne afferrò uno, e lo spinse nel fango colle parole — Impara un po' a cedere a chi t'è maggiore! — Marcantonio Morosini fu sepolto in chiesa di S. Francesco, nella cappella a fianco della porta laterale. Il palazzo di lui, che nel 1787 era già passato nella famiglia Querini, ed ora appartiene ad altri proprietarii, porta il N. A. 2845. In esso ai nostri tempi abitò il buon letterato Pier Alessandro Paravia. Quasi di faccia sorge l'altro palazzo Valier, poscia Riva. Fontego dei Tedeschi (Calle, Ramo, Salizzada, Rio del) a S. Bartolomeo. Essendo fino dal secolo XIII numerosi i Tedeschi in Venezia per oggetto di traffico, il Senato assegnò loro un casamento sul «Canal Grande», contiguo al «Ponte di Rialto», ad uso di abitazione, e di deposito tanto delle merci che qui acquistavano per trasportarle altrove, quanto di quelle che ritraevano dalla Germania. Questo edificio, che da quell'epoca s'incominciò a denominare «Fontego» (fondaco) «dei Tedeschi», venne ampliato nel 1300 colle case dei Polani. Nel 1505 violento incendio lo ridusse in cenere ed allora il Senato, collocati provvisoriamente i Tedeschi nelle case dei Lippomano a S. Fosca, decretò che fosse rifatto, il che ebbe compimento nel 1508. Per lungo tempo si attribuì questa rifabbrica a Pietro Lombardo. Il Morelli nel principio del secolo presente scoprì un poemetto latino d'un autore di quei tempi, secondo il quale, dovrebbesi attribuirla a fra' Giocondo da Verona. Tuttavia il decreto del Senato 19 giugno 1505, ed i «Diarii» del Sanudo danno a divedere che fu opera d'un Girolamo Tedesco d'ignoto cognome. Quel decreto dice chiaramente che avendo i mercatanti Tedeschi «suplicado se vuogli tuor el modelo fabrichado per uno dei suoi, nominado Hieronymo, homo intelligente et practico..., l'anderà parte che, per autorità de questo Conseglio la fabrica del Fontego sopradicto far se debi iuxta el modelo composto per el prefato Hieronymo Tedesco» ecc. Le parole poi del Sanudo sono le seguenti: «1505, 19 zugno. Fo posto per el Consegio tuor el modello dil Todescho, et secundo quello si fazzi el Fontego di Todeschi, et si fazzi le botteghe attorno; et el Colegio hebbe libertà per le do parte a bossoli et balote terminar quelo li parerà». Al Fondaco dei Tedeschi presiedevano tre patrizii col titolo di «Visdomini», essendovi pure un pubblico pesatore delle merci, due ragionieri, ed un fonticajo, o custode. L'edificio, che ora è convertito ad uso di pubblici dicasteri, venne dipinto a fresco nelle sue pareti esterne dal Tiziano, e dal Giorgione. Il Fondaco dei Tedeschi veniva visitato ogni anno, nella vigilia di Natale e nell'ultimo giorno dell'anno, dal clero di S. Bartolammeo. Qui si fecero molte feste, descritte dal Sanudo, e nei secoli XVI e XVII vigeva il curioso costume di celebrarvi, nei tre giorni e nelle tre notti antecedenti all'apertura del carnovale, pubblici balli mascherati. Fino dal 13 aprile 1341 nominaronsi quattro senatori per allargare la strada dal «Fontego dei Tedeschi» a S. Giovanni Grisostomo («Spiritus»). E si pensò ad allargarla nuovamente nel secolo XVI, narrando Marin Sanudo il 5 febbraio 1531 M. V. che in Senato fu «faticato longamente con summo studio et diligentia a trovar il modo di far lo accordo con quelli hanno stabili nella calle che va al ponte del Fontego dei todeschi a la chiesa di S. Giovanni Grisostomo». Fontego dei Turchi (Salizzada del) a S. Giovanni Decollato. I Turchi, massimamente dopo la metà del secolo XVI, frequenti vedevansi in Venezia. Sparsi dapprima, troviamo che nel 1571 abitavano in Cannaregio nel palazzo di Marcantonio Barbaro, bailo a Costantinopoli, ove, essendo in quell'anno successa la vittoria delle Curzolari, «stettero rinchiusi per quattro giorni per il dubbio che havevano d'essere lapidati dai putti, facendo mille segni di mestitia col rotolarsi per terra, battersi il petto, pelarsi li mostacchi, e graffiarsi il viso e le carni». Vedi Rocco Benedetto («Ragguaglio dell'Allegrezze, Solennità e Feste fatte in Venetia per la felice Vittoria, ecc., Venezia, Perchacino, 1571»). Nel 1574 un Francesco de Demitri Litino propose al Senato di raccoglierli in un albergo, di cui egli ed i suoi discendenti fossero i custodi. Accolta il 16 agosto 1575 la proposta, si elesse a tale oggetto una casa d'un Bartolammeo Vendramin a S. Matteo di Rialto, la quale serviva d'osteria all'insegna dell'«Angelo». Senonché poscia pensossi di ritrovare stabile più acconcio, e varii ne furono offerti, fra i quali nel 1579 uno dei Gabrieli ai SS. Giovanni e Paolo in «Calle della Testa». Ma i Turchi, qualunque se ne fosse la causa, non si partirono da S. Matteo, trovandosi che anche nel 1621 erano colà domiciliati. In questo anno il doge Antonio Priuli loro assegnò un palazzo, posto a cavaliere delle due antiche parrocchie di San Giacomo dall'Orio e di S. Giovanni Decollato, eretto, secondo il genealogista Barbaro, nella prima metà del secolo XIII dai Pesaro; comperato nell'anno 1381 dalla Repubblica per farne un dono a Nicolò d'Este, allora semplice marchese di Ferrara; confiscato agli Estensi nel 1482, e nel 1509; dato poco dopo dalla Repubblica a papa Giulio II; donato da costui nel 1520 ad Altobello Averoldo legato apostolico, il quale vi ebbe domicilio, al pari del di lui successore Benedetto Campeggio; restituito agli Estensi nel 1527; cesso nel 1602 da Cesare d'Este al cardinale Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, e tosto dopo acquistato dal suddetto Antonio Priuli prima di salire al soglio ducale. Tale palazzo, ove albergarono molti principi, e, come vogliono alcuni, il divino cantore della «Gerusalemme» quando venne a Venezia col duca Alfonso di Ferrara per incontrarvi Enrico III re di Polonia e di Francia, è d'architettura greco-barbara mista all'arabica, e certamente nel fabbricato si misero in opera materiali di edificii più antichi. Installati che vi furono i Turchi, si diede nuova forma al locale nell'interno, e vi si elesse per direttore G. Battista Litino, nipote di Francesco. Quindi si venne a comandare la chiusura delle finestre e delle porte, ad eccezione della grande sulla pubblica via; vietossi alle donne ed agli imberbi l'accesso; s'interdisse l'introduzione di polvere, ed armi da fuoco, ed altre molte leggi si promulgarono, commesse alla magistratura dei «Cinque Savii alla Mercanzia», che erano cinque nobili pratici del navigare e mercanteggiare, le sentenze dei quali negli affari appartenenti alla nazione Mussulmana erano inappellabili. Ad uso della nazione medesima servì il fondaco fino al 1838, in cui l'appaltatore Antonio Busetto, soprannominato Petich, ne fece acquisto dal conte Leonardo Manin, legatario di Pietro Pesaro nella cui famiglia lo stabile era ritornato pel matrimonio con una Priuli fino dal 1648. Allora Saddo-Drisdi, l'ultimo Turco che rimaneva in queste soglie, fu costretto ad abbandonarle, non senza però che egli vi riluttasse a tutta forza, e sdegnato perciò, partisse improvvisamente da Venezia. Nel 1860 il Fondaco dei Turchi fu ottenuto in enfiteusi dal nostro Comune che, impetrati 80.000 fiorini dal Governo Austriaco, s'accinse a ristaurarlo, sotto la direzione dell'ingegner Federico Berchet. Nel 1869, sei giugno, se ne scoprì al pubblico la facciata ridotta, per quanto fu possibile, alla sua originale condizione col rialzamento delle due torricelle laterali, già demolite per decreto della Repubblica 27 maggio 1627. E compiuti in seguito gli interni ristauri, qui si potè trasportare dal vicino casamento, legato da Teodoro Correr, il «Civico Museo», la cui inaugurazione successe il 4 luglio 1880. Fornèr (Fondamenta del) a S. Fosca. «Forner» nel nostro dialetto suona «fornajo». Per queste, ed altre località così denominate, vedi Forno (Calle del). Sulla «Fondamenta del Forner» a S. Fosca sorge il palazzo Vendramin, lombardesco, pregevole specialmente pei leggiadri intagli della porta, la quale meritò d'essere incisa dal Selvatico nei suoi «Studii sull'Architettura e Scultura in Venezia». In questo palazzo, che trovasi inciso dal Coronelli col titolo: «Palazzo Vendramino», eravi un celebre museo, copioso di statue, di busti e di medaglie, nonché di pitture del Giorgione, Gian Bellino, Tiziano, e Michelangelo. Fornèr (Campiello del) o del Marangon a S. Gio. Evangelista. Il fornajo più non vi stanzia, né il «marangon», o falegname. Forno (Calle del) a S. Sebastiano. In questa località, soggetta all'antica parrocchia di S. Basilio, esisteva nel 1740 «l'inviamento da forner» di Francesco Pietro Bon, il quale pagava pigione al N. U. Francesco Canal. L'arte dei fornai, o cuocitori di pane, fu eretta in corpo nel 1445, ed aveva due scuole di devozione, l'una sotto il titolo dei SS. tre Re Magi presso il «Ponte della Madonna dell'Orto» con vicino ospizio; l'altra, sotto il titolo della B.V., in chiesa di S. Maria Zobenigo. Il prezzo per cuocere il pane venne fissato nel 1649 a soldi 20 allo stajo, mentre prima, cioè nel 1627, era fissato a soldi 16, indi a 14. Le canne a servizio dei forni dovevano essere collocate in lontananza dai medesimi, saggia misura la cui trascuranza produsse varii incendii. Nel 1773 i forni esercitanti ascendevano a 62, i chiusi a 3, e gl'inviamenti a 65, con 62 capi maestri, 149 lavoranti, e 22 garzoni. Notisi che gli inviamenti non si potevano accrescere di numero perché venduti dal pubblico. Tra le altre strade di Venezia che presero il nome dai forni che colà esistevano od esistono tuttora, noteremo la «Calle del Forno» a S. Sofia pell'oratorio sacro alla Natività di M. V. e S. Rocco fatto fabbricare colà nel 1806 dal fornaio Martino Gatti. Forno (Calle del) o del Piombo a Santa Marina. Pel primo nome vedi Forno (Calle del). Pel secondo Piombo (Rio del). Il Codice Cicogna 264 intitolato: «Memorie Venete», contiene la seguente notizia: «21 Marzo 1761. In Calle del Piombo a S. Marina fu barbaramente trucidata la signora N. ed il reo fu placitato dall'ecc. Avog. Vinc. Donà, e li 13 Settembre 1763 fu condannato in vita». Forno (Calle del) detta Salizzada a S. Vito. Il forno scorgesi anche oggidì. La Calle poi è detta «Salizzada» perché forse fu una delle prime anticamente selciate. Forno (Calle del) o del Teatro a San Fantino. Qui pure esisteva anticamente un forno. L'altra denominazione dipende dal vicino teatro della Fenice. Vedi Fenice (Ponte ecc. della). Presso la «Calle del Forno» a S. Fantino esisteva nel 1521 la celebre stamperia di G. Antonio de Sabio. Forno vecchio (Corte del) a S. Giovanni in Bragora. Alcune strade di Venezia, ove anticamente era stabilito un forno, ebbero questo nome dopoché qualch'altro forno in epoca posteriore si stabilì nei contorni. L'elefante che scappò nel 1819 dal suo serraglio sulla «Riva degli Schiavoni», involandosi a' suoi persecutori, entrò nella «Calle del Forno Vecchio» a S. Giovanni in Bragora. Qui ruppe la porta d'una casa, fracassò la «vera» d'un pozzo, e, tentando di salire una scala di legno, rovinò a terra colla medesima. Allora gli furono scaricate contro molte palle di fucile, che non valsero a ferirne la durissima pelle, ma penetrarono in quella vece in una piccola stanza terrena, ove tranquillamente dormiva una povera vedova con quattro teneri figliuoli. Fortunatamente però volarono al di sopra dei corpi di quell'infelice famiglia, la quale, per un prodigio, restò illesa del tutto. Frattanto l'elefante rialzatosi, tornò a prender la fuga, e riparò nella chiesa di S. Antonino, in cui finalmente rinvenne la morte per opera degli artiglieri. Vedi S. Antonino (Salizzada ecc.). Tra le altre strade che portano la stessa denominazione merita ricordo la «Corte del Forno Vecchio» a S. Luca ove esiste un oratorio fondato nel 1815 da Giovanni Bollani. Foscarini (Ponte, Fondamenta) ai Carmini. Dal prossimo palazzo Foscarini, donde Enrico III re di Francia e di Polonia ammirò nel 1574 la così detta «guerra dei bastoni», combattuta sul ponte sottoposto. Marsilio dalla Croce, nella sua «Istoria della pubblica et famosa entrata in Vinegia del serenissimo Enrico III, re di Francia e di Polonia», racconta che, dovendosi fare tal guerra, «vi si volle ritrovare la Maestà sua, siccome aveva desiderato più volte, per godere ancora quest'altro trattenimento e sollazzo; e si ridusse sul tardi con li principi e signori in casa del clarissimo Jacomo Foscarini, ambasciatore, per mezzo il ponte. Fu fatto subito bando, pena la galea, che tutti quei che montassero sul ponte tagliassero prima le punte a' loro bastoni, e pena la vita a chi tirasse sassi, mettesse mano all'armi, e causasse alcuno tumulto, od altro inconveniente, come altre volte è accaduto, e li capitani, per ordine dei loro signori, vennero armati in guardia per vietare ai scandali. Sua Maestà fattasi vedere alle finestre, le quali erano apparate di panni d'oro con suoi guanciali del medesimo, comparsero in campo da l'una parte e l'altra da circa duecento combattenti... e quivi montati sopra il detto ponte a due a due, ora una parte, ora l'altra a far la mostra, poi a solo per solo, cominciarono a tirarsi alquanti colpi sino a tanto che s'attaccò di poi tutta la frotta, che durò più di mezz'ora, scacciandosi ora gli uni, et ora gli altri giù del ponte, e talora rimettendosi, abbassando gli adversarii che gli avevano cacciati, dandosi più volte la carica in diverse frotte l'una parte e l'altra, e rimanendo anche talora patroni del ponte; talché la Maestà sua vide benissimo questa pugna, e la godè con suo grandissimo gusto e trastullo, la quale riuscì benissimo per le belle frotte che più volte si fecero; e per la gran moltitudine dei combattenti nel cacciarsi cadevano molti per terra, et altri precipitosamente in vari modi nell'acqua da ambe le parti... et in segno di gratitudine che si fossero diportati bene, furono premiati tutti, dandosi ad ambedue le parti cento e cinquanta ducati per una, e venticinque di rinfrescamento, li quali denari spesero gli uni e gli altri in fare feste di balli, caccie di tori, fuochi artificali, et altri simili trattenimenti, cadauna parte nel suo sestiero». Il citato Giacomo Foscarini, che ospitò nel 1574 il re Enrico III, fu prode generale di mare e, morto nel 1602, ebbe splendido monumento in chiesa dei Carmini. Questa linea dei Foscarini andò estinta nel procuratore Pietro, morto nel 1745, la cui vedova Elisabetta Corner diede il 3 agosto 1749 nel suo palazzo dei Carmini una splendida festa di ballo, con musica e canti, alla serenissima famiglia di Modena. Tale festa venne rappresentata in un'incisione del Filosi. Abbiamo dai cronisti che la famiglia Foscarini, da cui altre fra le nostre vie si appellarono, provenne da Altino, oppure da Padova, nell'867, e che anticamente chiamavasi Cobeschini, ma cangiò di cognome nel 1297, epoca nella quale rimase del Consiglio. Produsse varii illustri personaggi. Desta compassione il fatto d'un Antonio, uscito da questa famiglia, che, frequentando di notte la casa della contessa inglese Anna d'Arundel, ed accusato d'aver colà secreti colloqui cogli esteri diplomatici, venne strozzato in prigione nel 1622, ma poscia fu dichiarato innocente. Dalla medesima famiglia uscì nel secolo seguente Marco, eruditissimo bibliotecario della Marciana, innalzato nel 1762 alla ducale dignità, il quale nel palazzo dei Carmini, che, per eredità, era passato nella sua linea, raccolse un ricco tesoro di cronache patrie. Quantunque non si possieda che la prima parte della sua «Storia della Letteratura Veneziana», essa sola è bastante a farci conoscere la vastità del suo talento e delle sue cognizioni. Il «Ponte Foscarini» ai Carmini chiamavasi anche «dei Guori». Vedi Carmine (Campo, Rio del). Foscarini (Rio terrà). Vedi S. Agnese. Foscarini Marco. Vedi Marco Foscarini. Foscolo Ugo (Campo). Vedi Gatte. Fossa Capara. Vedi Capara. Frati (Fondamenta, Ponte, Calle dei) a S. Angelo. Dal prossimo ex convento agostiniano di S. Stefano Protomartire. Sembra che i frati di S. Stefano abbiano fatto erigere questo ponte nel 1455, poiché la cronaca del Savina dice che essi nell'anno suddetto «fecero far un ponte de piera, et una porta che passa sopra el rio, et va nel suo convento». Veramente di stile del secolo XV è la porta, nell'archivolto della quale scorgesi un alto rilievo figurante S. Agostino in mezzo ai frati del suo ordine, che porgono preghiere. Appiedi di questo ponte sta affissa sul muro una lapide, non si sa come qui trasportata, la quale ricorda le indulgenze che si lucravano, soccorrendo con elemosine lo spedale della Pietà, fondato dal francescano Pietro d'Assisi, detto anche «fra' Pieruzzo dalla Pietà». La «Calle dei Frati» a S. Stefano venne allargata nel 1884. Frati (Calle dei) all'Eremite. Dai frati di S. Stefano, i quali, per attestato delle varie Descrizioni della contrada dei Ss. Gervasio e Protasio, vi possedevano alcune case. Appare poi dalle Condizioni pel 1740 che queste case erano cinque, unite, e fabbricate il 26 luglio 1554. Frati (Calle dei) a S. Sebastiano. Dai frati Geronimini un tempo stanziati nel convento di S. Sebastiano. Frati (Calle dei) ai Gesuati. Dai frati Gesuati, al convento ed alla vecchia chiesa dei quali è vicina. Frati (Calle dei) alla Giudecca. Dal convento dei pp. Cappuccini, intitolato al SS. Redentore. Fruttarol (Calle del) detta Lanza a S. Gregorio. Per la prima denominazione vedi l'articolo antecedente. La seconda deriva da una famiglia Lanza. Una «Vittoria Corona r.ta Onorio Lanza» notificò il 18 marzo 1626 d'aver dato a pigione la casa che teneva per uso «pro indiviso col N. U. Marco Malipiero», la quale era situata «in contrà de S. Gregorio». Fruttarol (Sottoportico del) detto Della Malvasia a San Felice. La bottega da fruttaiuolo trovasi ancora qui presso, ma non del pari la bottega da «malvasia». Vedi Malvasia (Calle della). Fruttaròl (Sottoportico e Corte del) in «Casselleria». A ragione dice il Dezan che tali località non del «Fruttarol» (fruttajuolo) ma dei «Fruttaroli» dovrebbonsi appellare, imperciocché la confraternita dei Fruttajuoli, eretta fino dal 1423, aveva qui un ospizio composto di 19 camere, ed un oratorio sacro a San Giosafatte. Questa arte, unita a quella degli Erbajuoli, aveva un altro oratorio dedicato al medesimo santo presso la chiesa di S. Maria Formosa. I Fruttaiuoli erano gli eroi della così detta festa dei «Meloni», della quale ecco l'origine. Avendo il doge Steno, nel primo anno del suo governo, composto alcune dissensioni insorte fra i confratelli di quest'arte, ed avendogli essi offerto, in segno di gratitudine, un presente di poponi, o «meloni», si volle continuare la pratica anche negli anni avvenire. I fruttaiuoli pertanto nel primo anno del governo d'ogni doge, in un determinato giorno d'agosto, radunavansi in «Campo di S. Maria Formosa», e, per la «Merceria» e la «Piazza di S. Marco», recavansi in corpo al Palazzo Ducale. Precedevano sei mazzieri recanti bastoni dipinti di verde a fili d'oro, e coll'armi gentilizie di sua Serenità. Andavano dietro quattro trombettieri, e tre tamburini, che facevano echeggiare l'aria del suono dei loro strumenti. Venivano quindi i tre stendardi dell'Arte; un gran solajo con la figura di S. Giosafat, protettore dell'Arte, sostenuto da quattro facchini, i quali erano vestiti di tela bianca, stampata a fiori di color rosso, ed avevano un berrettone in testa con fiocchi e fiori; due fanciulli, vestiti di nero, con due mazzetti di fiori; l'interveniente dell'Arte fra il doge dei Nicolotti, perpetuo gastaldo dell'Arte, in ducale rossa e calotta nera, ed il vicario dell'Arte medesima con tabarro di colore. Seguivano finalmente i fruttaiuoli, a due a due, portando i poponi in corbe ornate, e sopra argentei bacini. Arrivata la processione alla così detta «Porta della Carta», saliva alla «Sala dei Banchetti», ove si depositavano i poponi, ed erano preparati i doni che in ricambio il doge largiva all'Arte, consistenti in forme di formaggio, in prosciutti, «ossocolli», «sopressade», lingue salate, «buzzoladi», e vino moscato. Allora s'introducevano i Capi dell'Arte alla presenza di sua Serenità, i due fanciulli gli presentavano i loro mazzetti di fiori, e l'interveniente recitava apposito discorso, a cui il principe benignamente rispondeva. La festa dei Meloni fu disegnata dal Grevembroch ne' suoi «Abiti dei Veneziani di quasi ogni età» (Ms. al Civico Museo). Fruttaròl (Calle del) a S. Fantino. La bottega da «fruttarol», o fruttajuolo, che esisteva in questa calle, e che nel 1740 veniva condotta da un Giacomo Pellegrin, affittuale dei Giustinian, serve attualmente ad altra destinazione. Dei fruttaiuoli, i quali diedero il nome a più strade di Venezia, abbiamo detto più sopra. Vuolsi che in «Calle del Fruttarol» a San Fantino abbiano avuto i natali due celebri soggetti della famiglia Giustinian, cioè il beato Nicolò, monaco in San Nicolò del Lido, che nel secolo XII uscì dal chiostro col permesso del pontefice, e si unì ad Anna Michiel per dar successione al proprio casato, dopoché ritornò nella solitudine, e quel Lorenzo, che fu nel 1451 il primo patriarca di Venezia, e dopo morte entrò nel novero dei santi. Egli ricevette il battesimo nella prossima chiesa di S. Fantino. Il canonico Angelo Regazzi nelle sue «Notizie storiche edite ed inedite di S. Lorenzo Giustiniani» ecc, «Venezia, Grimaldo, 1856», così scrive al Capo II: «Il palazzo Giustiniani, ove nacque il nostro santo, sorgeva nella Calle del Fruttarol, detta dei Barcaroli, a S. Fantino, il quale, passato in proprietà dei Morosini, ridotto venne attualmente in quattro case marcate col civico numero 1858. In conseguenza di ciò, non rimane memoria alcuna della stanza in cui nacque Lorenzo, ma appo i nobili Morosini prefati si venera un'antichissima di lui immagine. In una stanza però di quelle case, per attestazione d'alcuni, e principalmente del Rev.mo Pievano di S. Maria Zobenigo, e di una vecchia donna, accendevansi, da immemorabile tempo, il dì 8 gennaio, alcuni ceri in onore del santo. All'altare poi di S. Gaetano, nella chiesa di San Fantino, evvi un simulacro che lo rappresenta, forse in memoria d'essere nato in quella parrocchia». Fabbri (Calle dei) a S. Moisè. Dalla Scuola dei Fabbri ferrai. Fino dai primi tempi i Fabbri ferrai erano numerosissimi nella nostra città, e formavano un corpo, sopra il quale gli antichi dogi invigilavano. Rilevasi dal Sagornino, che nei principii del mille questi artieri dovevano lavorare una data quantità di ferro per conto del fisco, cioè dei dogi, che allora commerciavano come i privati. Nel 1162 i Fabbri si segnalarono contro Wuldarico, patriarca d'Aquileja, laonde nella festa del Giovedì Grasso, istituitasi in commemorazione della riportata vittoria, essi procedevano in «Piazza S. Marco», armati all'antica, tagliavano, insieme ai Beccai, la testa al toro, ne dispensavano la carne ai poveri, e finalmente, fra i musicali concenti, s'assidevano a lieto convito. Non sappiamo precisamente in qual epoca la loro confraternita siasi stabilita nella chiesa di San Moisè, ma vi esisteva fino dai tempi del Sabellico che la ricorda. Sappiamo poi che nel 1583 passò improvvisamente nella chiesa di S. Vitale, ma ritornò nel 1602 in quella di San Moisè, presso la quale, fino dal 1584, aveva fatto acquisto da Pietro Balbi di quattro vecchie case, e di altre due vicine dalla famiglia Cappello, ad oggetto di costruire la Scuola di cui parliamo, e che dà il nome al sentiero da noi illustrato. Un inventario, riportato da Agostino Sagredo («Sulle Consorterie delle Arti Edificative in Venezia»), ci fa sapere che nel piano terreno di questo edificio eravi il deposito del carbone, ed un'altra stanza ad uso comune; a metà della scala una stanza tappezzata con cuoi dorati, che serviva pell'elezioni e l'adunanze degli ufficiali; nel piano superiore la sala grande con altare di legno dorato e dipinti di celebri autori; nel terzo piano poi l'archivio, ed una stanza pell'armi destinate alla funzione del Giovedì Grasso. I fabbri costrussero pure nel 1696 un altare nella chiesa di S. Moisè. Non paghi d'un solo santo titolare, ne avevano quattro, cioè «S. Alò» (S. Eligio), «S. Liberale», «S. Carlo», e «S. Giovanni Battista». La loro Scuola, dopo la soppressione delle Confraternite, servì per qualche tempo a ricetto di povere, e quindi per molti anni a teatro di marionette. Ora serve a magazzino. Un'altra Calle a San Marco è detta «dei Fabbri» per le varie officine fabbrili che tuttora vi esistono. Qui abitava in una splendida ed ampia casa «Antonio Lotti», maestro di cappella in S. Marco. Egli morì il 5 gennaio 1739 M. V. Vedi: Caffi, «Storia della Musica Sacra nella già Cappella Ducale di S. Marco in Venezia. Venezia, Antonelli, 1855». Fabbriche (Sottoportico, Traghetto delle) a Rialto. Questo Sottoportico è sormontato dalle così dette «Fabbriche Nuove», che hanno il prospetto lungo il «Canal Grande», e che furono erette sul disegno del Sansovino dal 1552 al 1555 pegli usi del commercio. Negli ultimi anni del Governo Austriaco vennero ristaurate. Facchini (Corte dei) presso la «Fondamenta della Misericordia» a S. Marziale. Ad ogni sestiere di Venezia erano addetti per lo passato molti facchini, i quali, fra le altre incombenze, avevano quella di pulire le pilelle, ed i pozzi. Essi provenivano in ispecialità dalla Valtellina, e raccoglievansi nella chiesa di San Giuliano in devota confraternita, eretta il 16 aprile 1626, sotto il titolo della Visitazione della B. V. Uno stazio di essi, come raccogliesi da un codice Marciano, esisteva sopra la «Fondamenta della Misericordia». Falcon (Ramo, Sottoportico del) a S. Luca. Sembra che queste vie, prossime bensì al «Campo di S. Luca», ma sottoposte un tempo, come adesso, alla parrocchia di San Salvatore, abbiano tratto l'appellazione da una famiglia Falcon. Chi trovò memoria d'una famiglia di tal cognome nell'indicata parrocchia fu il Gallicciolli, che nelle «Memorie Venete» (Lib. III, 649) lasciò scritto: «Nel 1455, 26 Novembre, certo Domenico Falcon possedeva stabili in S. Salvatore, Act. Cur. Cast.». Di questa famiglia era forse quel Francesco Falcon, cittadino veneziano, che nel 1501 venne ucciso da un Angelo Gazato mentre passava «per callem qua itur ad rippam Carbonis in contracta Sancti Lucae». Il Gazato, resosi contumace, fu bandito il 30 maggio 1503 da tutto il dominio veneto colla comminazione d'aver tagliata, ove fosse colto, la mano destra e, con quella appesa al collo, d'essere decapitato frammezzo le due colonne della «Piazzetta». Falcona (Corte) a S. Margherita. La Descrizione della contrada di S. Margherita pel 1713 la chiama «Corte Grifalcona», e segna in essa la «casa propria del Rev. D. Zuane Grifalconi», nonché altre due case dei «signori Alvise e fratelli Grifalconi». Questa famiglia, di origine Veronese, fino ab antico fermò il suo domicilio in parrocchia di S. Margherita, poiché in una delle «Mariegole» della scuola di S. Maria della Misericordia, o della Val Verde (an. 1308-1499), trovasi ascritto qual confratello un «Tommaso di Grifalconi» da S. Margherita. Egli è probabilmente quel «Tommaso Grifalconi q.m. Giordano» da Verona, che il 28 marzo 1383 ottenne un privilegio di cittadinanza veneziana. Come emerge dalla stessa «Mariegola», anche un Antonio, ed un Alberto Grifalconi da S. Margherita erano di quel tempo confratelli della Scuola di S. Maria della Misericordia. La famiglia Grifalconi, oltre la casa di S. Margherita, possedeva un palazzo in «Calle della Testa» (ove nel secolo trascorso esisteva il Fondaco del Curame) con beni in terra ferma, specialmente sotto Cittadella. Aveva sepolcro in chiesa dei Carmini, e si rese celebre pell'adozione di Luigi Dragan, che perciò si fece chiamare Grifalconi, e che dopo aver insegnato in Francia, morì fra noi nel 1555, venendo sepolto con iscrizione fuori d'una delle porte laterali della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Ricorda il Bardi nelle sue «Cose Notabili della Città di Venetia» ch'egli «fu gran filosofo, et di molta profonda dottrina. Havea cognitioni di molte lingue. Era eloquente, e d'alta memoria. Et con faconda et piacevole eloquenza giovando agli ascoltatori, dilettava altri volentieri, insegnando la bella via per la qual l'huomo dee camminare in queste tenebre mondane». Fanese (Via) in Ghetto Nuovissimo. Vedi Calleselle (Strada nuova delle). Faraon (Calle del) in «Cannaregio», sulla «Fondamenta delle Penitenti». Leggasi «Calle del Feraù», come nella Descrizione della contrada di S. Geremia pel 1661. «Ferraù» è cognome di famiglia, la quale, sebbene nel 1661 più non abitasse nella Calle che da essa prese il nome, abitava però poco discosto in una casa della cittadinesca famiglia Pozzo. Farsetti (Traghetto) a S. Luca. Sorge qui presso un palazzo eretto nel principio del secolo XIII dai Dandolo, che, secondo il cronista Magno, aveva in origine la facciata verso il «Campiello della Chiesa» di S. Luca. Questo palazzo, ove abitò il doge Andrea Dandolo prima della sua assunzione alla ducea, ed ove ospitossi nel 1361 Rodolfo duca d'Austria, venne, coll'andar del tempo, dai Dandolo rifabbricato colla facciata verso il «Canal Grande», foggiata sulla primitiva maniera bisantina. Dopo altri proprietarii, passò nel 1670 in mano della nobile famiglia Farsetti venuta dalla Toscana, ed assunta nel 1664 al Veneto patriziato. Ebbe allora nuovi abbellimenti, e l'abate Filippo Farsetti vi andò con cura raccogliendo le copie in gesso, delle quali aveva fatto trarre le forme sopra gli stessi originali, delle più celebri statue di Roma, Napoli, e Firenze, coll'aggiunta di celebri dipinti. Né pago di ciò, prepose a tale sua galleria lo scultore bolognese Ventura Furlani, lasciandola sempre aperta ai giovani cultori delle arti, cui somministrava eziandio l'occorrente pel disegno, ed istituendo annui premi agli autori delle opere più lodevolmente sopra quei modelli condotte. Non fu altrove che Canova apprese i rudimenti della scultura, laonde scorgevansi sulle scale due cestellini di marmo, ripieni di frutta, primi intagli del grande artista, trasportati, per iscopo di preservazione, l'anno 1852, nel civico museo. Il palazzo Farsetti servì pure di sede all'accademia letteraria dei Granelleschi istituita nel 1747 da Daniele, cugino dell'ab. Filippo Farsetti sovraccitato, e sostenuto dal di lui fratello Tommaso Giuseppe, cavaliere Gerosolimitano. Ed altra accademia letteraria vi si raccolse nel 1778, di cui fu eletto mecenate lo stesso Daniele, alla cui morte, avvenuta nel 1787, passò in casa Erizzo a S. Martino. Senonché ben diverso dai proprii congiunti mostrossi Anton Francesco, figlio di Daniele, ultimo rampollo di sì illustre prosapia. Fino dal 1788 chiuse la galleria coll'intenzione di alienare gli oggetti ond'era fornita. Vi si opposero gli Inquisitori di Stato, e fu soltanto dopo la caduta della Repubblica ch'egli poté vendere le opere di pittura, e donare a Paolo I imperatore delle Russie le principali forme delle statue, le quali ultime sarebbero pur esse andate disperse se nel 1805 non fossero state comperate dal governo Austriaco a profitto della nostra Accademia di Belle Arti. Anton Francesco Farsetti, aggravato da debiti, cessò di vivere a Pietroburgo nel 1808. Allora la vedova Andriana da Ponte acquistò il palazzo all'asta come creditrice di dote, lo concesse per alcuni anni ad uso d'albergo coll'insegna della Gran Bretagna, e finalmente, mediante lo strumento 28 ottobre 1826, in atti Pietro Occioni, lo vendette alla Congregazione Municipale di Venezia, che nell'anno seguente vi pose la sua stabile residenza. Quantunque anche in tale circostanza venisse riattato, fu d'uopo praticarvi nuovi lavori nel 1874, epoca in cui ebbe rinnovata la parte inferiore del prospetto colla sostituzione di nuovi marmi e colonne, e colla demolizione d'un accesso laterale, informe, e mal corrispondente all'insieme. La famiglia Farsetti lasciò pure il suo nome ad una Fondamenta ai SS. Ermagora e Fortunato presso il «Rio Terrà dei Due Ponti». Fava (Calle e Rami dietro la, Campo, Ponte, Calle della). Per quanto appare da un autentico documento, che abbiamo scoperto nelle carte della famiglia Correr al Civico Museo, esisteva in parrocchia di S. Leone, «vulgo S. Lio», nel secolo XV, appesa al muro di ca' Dolce (e non di ca' Amadi, come scrisse il Corner) un'immagine di M.V. considerata miracolosa. Nel 1496 (e non 1480) a merito d'alcuni parrocchiani, si comperarono dai Dolce due casette per erigere sopra quel fondo una piccola chiesa ove poter collocare la sacra immagine. Questa chiesa chiamossi di S. Maria della Consolazione, o «della Fava», per essere prossima al «Ponte delle Fave», o «della Fava». Raccontano gli scrittori ecclesiastici che così si disse tal Ponte, perché un uomo, colà domiciliato, avendo nascosto certo contrabbando di sale sotto alcuni sacchi di fava, del qual legume era negoziante, ed essendo avvisato della venuta dei birri, gettossi per soccorso ai piedi della suddetta immagine miracolosa, ed ottenne in grazia che la giustizia, ad onta delle fatte ricerche, non ritrovasse in di lui casa che pura fava. Alcuni invece vogliono che presso questo ponte vi fosse una bottega ove si vendevano quelle pastiglie che si preparano pel giorno dei Morti, e che appellansi fave. L'uso di preparare in detto giorno tali pastiglie ebbe l'origine seguente. Immaginandosi i gentili di leggere nel petalo del fiore della fava alcune lettere funebri, e credendo eziandio che l'anime dei morti trasmigrassero nelle fave, se ne cibavano nei funebri banchetti, e le offrivano ai Mani nelle feste Lemurie, gettandosele per rito dietro le spalle («Ovidio, Fasti, Lib. V»). I nostri padri ritennero questa superstizione. Anch'essi ai 2 di novembre mangiavano fava, e gran quantità ne dispensavano i conventi ai poveri, ed ai gondolieri dei traghetti in premio del servigio, che, durante l'anno, prestavano ai religiosi, passandoli gratuitamente dall'una all'altra riva della città. Siccome poi tal cibo non riusciva molto gradito al palato dei ricchi, col progresso del tempo se ne cangiò la natura, e lo si convertì nelle anzidette ghiotte pastiglie, ma gli si conservò il nome primitivo. Altri finalmente, fra cui il Codice 2929 della Raccolta Cicogna, dicono che il «Ponte della Fava», e per esso le strade vicine, derivano il nome dalla famiglia Fava e un Francesco Fava, «spezier» da Ferrara, domiciliato in parrocchia di S. Salvatore, ottenne nel 1306 la cittadinanza veneziana. Ed un Nicolò Fava da S. Salvatore era nel 1345 confratello della Scuola della Carità. Comunque siasi, la chiesetta dedicata a S. Maria della Consolazione, che anticamente era in riva al canale, rimase fino al 1662 sotto l'amministrazione di varii procuratori, e poi si diede in cura ai padri di S. Filippo Neri. Senonché nel principio del secolo XVIII fu atterrata, ed in sua vece si fabbricò, un poco più addentro perché ne dovesse risultare una piazzetta anteriore, la chiesa presente sul disegno di Antonio Gaspari, e di Francesco Fossati, dilatandosi eziandio la casa dei padri. Questi furono soppressi all'epoca napoleonica, e quindi ristabiliti nel 1821. La facciata della chiesa ebbe un ristauro nel 1884. Feltrina (Ponte, Campiello della) a S. Maria Zobenigo. Nel «Campiello dietro la chiesa» di S. M. Zobenigo eravi, giusta la Descrizione della contrada pel 1740, la «casa detta Feltrina, tenuta ad affitto dalla città di Feltre, et in custodia habitata della sig. Elisabetta Severi». Di queste particolari albergherie abbiamo parlato altrove. Vedi Bressana (Calle ecc.). Sembra poi che in seguito un esercente privato assumesse di condurre la «Casa Feltrina» per proprio conto, poiché nel Giornale Veneto, intitolato il «Nuovo Postiglione», in data 29 aprile 1786, leggiamo il seguente avviso: «Circa un anno fa è stato esposto al pubblico sotto un'insegna di una locanda questo manifesto: — In Venezia vero Alloggio e sola Locanda Nobile della magnifica città di Feltre, trasportata dalla Contrada di S. Maria Zobenigo in calle del Doge a S. Maurizio. — Si oppose a questo avviso ed insegna il sig. Lorenzo Ferri, vero e legittimo esercente da molti anni la Locanda della Feltrina tra i due ponti a S. Maria Zobenigo, ed il dì 7 del corr. fu decisa a di lui favore la questione. Con tale sentenza viene assicurata la di lui antica insegna della Feltrina a S. M. Zobenigo coll'esclusione della esposta in Calle del Doge a S. Maurizio» ecc. La locanda suddetta esisteva precisamente in quel fabbricato archiacuto, allora posseduto dai Malipiero, che trovasi in «Campiello della Feltrina» a mano destra di chi viene da S. Maria Zobenigo, ove poscia abitò il celebre poeta vernacolo Pietro Buratti. Sembra che il Barbaro voglia alludere al sito detto poi «Campiello della Feltrina» allorché, parlando d'Ugolino Scrovegno, così si esprime: «Haveva questo Ugolino una casa qui in Venetia dove è quel poco di piazza fra S. Maria Zobenigo e S. Maurizio, parte della quale del 1367 comprò la sig. et la spianò per farsi più bella strada nell'andar a S. Vido». Felzèr (Sottoportico e Corte del) ai Tolentini. «Felzer» equivale fra noi a fabbricatore di «Felzi». Vedi l'articolo susseguente. Felzi (Fondamenta dei) ai SS. Giovanni e Paolo. Varie delle nostre vie hanno questo nome dai «felzi», o coperti delle gondole, che in esse si lavoravano, o si lavorano tuttora. I «felzi» voglionsi così detti perché nell'estate vi si stendevano sopra, in cambio del panno, le felci, od altre erbe alle felci somiglianti. Delle gondole abbiamo ricordo fino dal 1094 in un diploma di Vitale Falier agli abitatori di Loreo. Il nome «gondola» provenne da «cymbula», o da «concha», o «conchula», o dalle greche voci «contos elas» (breve barca). Da principio queste barchette erano semplici e modeste, ma nel secolo XVI, in cui giunsero in Venezia al numero di 10 mila, s'incominciarono ad adornare da poppa e da prora di due ferri ricurvi, guarniti di piccole punte, e si addobbarono di stoffe e broccati ricchi oltremisura. Allora il Magistrato alle Pompe, stimando tal lusso eccessivo, comandò che esse dovessero coprirsi di quel panno di lana ordinaria, chiamato «rascia», e volle che il colore del detto panno fosse uniformemente nero. Alla fine del secolo XVIII, tolto il ferro da poppa, riformato quello da prora, e fattevi dell'aggiunte non più di lusso, ma di comodo, vennero portate le gondole a quella condizione in cui trovansi tuttora. Essendo il 3 marzo 1605 caduta una casa sulla «Fondamenta dei Felzi» ai SS. Giovanni e Paolo, rimase morto sotto le rovine il senatore Leonardo Zulian q. Giovanni, che, per accidente, passava per questa via, ritornando dalla compieta, a cui aveva assistito nella prossima chiesa. Ferali (Ponte, Rio dei) a S. Giuliano. I registri Sanitarii ci fanno fede che moltissimi fabbricatori di «ferali» (fanali) da S. Giuliano morirono nel 1576, epoca della pestilenza. E leggesi che, in occasione della Redecima del 1582, la commissarìa di Bartolammeo Moro notificò di possedere «in contrà de S. Zulian, al Ponte dei Ferali», varie case, una delle quali appigionata a «m.r Battista q. Antonio feraler», ed un'altra a «m.r. Mathio q. Gervaso feraler». I «Feraleri», uniti ai «Peteneri da testa», avevano pure scuola di devozione in chiesa di S. Giuliano sotto il patrocinio di S. Paolo primo eremita. Vedi la «Guida» del Coronelli (edizione del 1700). Nella processione dell'Arti, fatta nel 1268, per festeggiare l'elezione del doge Francesco Tiepolo, si videro comparire con molte lanterne piene d'uccelli, ai quali, giunti innanzi al principe, diedero il volo fra le più grasse risa del popolo, e gli sforzi dei monelli per acchiapparli. Quest'arte rinnovò la sua «Mariegola» nel 1437, e, sebbene formasse un corpo a sé, consideravasi come un colonnello dei Merciai. Notammo altrove come nel 1128, pei molti assassinii che nascevano, fossero posti ad ardere nelle strade mal sicure alcuni «cesendeli», o lanterne. In seguito ordinossi nel 1450 che «sotto al pòrtego della Drapperia ogni sera si accenda lampade quattro che durino sino ore quattro di notte». E nel 1453 che «i provveditori al Sal paghino l'olio de li cesendeli del Rialto». Quindi nel 24 ottobre 1719 furono posti i fanali in «Merceria», e nell'11 febbraio 1720 in tutte le «calli correnti». Finalmente nel 1732, 23 maggio, fu decretata l'illuminazione intera di Venezia, con obbligo a tutti di contribuirvi, eccettuati i miserabili. I Bombardieri, in virtù dei loro privilegi, pretendevano d'essere immuni da quella contribuzione, ma per dichiarazione del Senato, in data 13 novembre, anch'essi furono costretti a pagare. Appare dal decreto medesimo che prima l'illuminazione facevasi colle «volontarie oblazioni di persone caritatevoli». Di tal modo la nostra città incominciò ad essere perfettamente illuminata mentre altre giacevano al buio, ed il Goldoni, al suo ritorno in patria, fra le altre cose uniche e meravigliose che in essa rivedeva, molto si rallegrava pell'utile, ed aggradevole illuminazione delle vie, altrove da lui vanamente desiderata. Si ha dalla «Gazzetta Urbana» che nel 1795 i fanali erano 1952, cioè 457 per S. Marco, 359 per Castello, 240 per S. Polo, 430 per Cannaregio, 193 per S. Croce, e 273 per Dorsoduro. Aggiungansi i dodici della Giudecca, per cui il loro numero ascendeva a 1964. Il «Ponte dei Ferali» era chiamato anticamente «degli Armeni», per essere vicino alla loro chiesa, leggendosi in una sentenza dei Signori di Notte al Criminal, in data 6 dicembre 1389, queste parole: «Super angulo Sancti Juliani prope pontem Armeniorum». Feraù (Calle del) in Fondamenta Cannaregio. Vedi Faraon. Ferrando (Corte, Calle stretta, Campiello) alla Giudecca. In «Campiello Ferrando» alla Giudecca esisteva nel 1713 una «casa del N. U. Marco Loredan con scorzera e macina», appigionata a «Marco Frollo detto Ferrando». Probabilmente egli è quel Marco Ferrando, il quale, come risulta da epigrafe riportata dal Cicogna, eresse a proprie spese il 16 luglio 1707 l'altar maggiore della chiesa di S. Angelo alla Giudecca. Marco Ferrando ebbe un figlio per nome Giovanni, che anch'egli era «scorzer», e viene annoverato fra gli abitanti della Giudecca dall'Anagrafi Sanitaria pell'anno 1761. Questi morì nel 1767, leggendosi nei Necrologi Sanitarii: «5 Aprile 1767. Il sig. Zuane q.m Marco Ferrando, d'anni 67, spasmodico e chachetico con febre mesi 18, morto all'ore 18. Medico Zuccharelli - S. Eufemia». Ferretta (Corte) a S. Fantino. In questa Corte, soggetta un tempo alla parrocchia di S. Angelo, abitava nel 1740 un «Giacomo Ferretti». Questo «Giacomo Ferretti q.m Antonio» nella Condizione dei proprii beni, presentata nell'anno medesimo ai X Savii, disse di possedere varie case nelle parrocchie di S. Maria Nuova, dei SS. Gervasio e Protasio, e dell'Angelo Raffaele, nonché varii campi nel Padovano. Egli, come crediamo, è il medesimo che nel 1754 venne sepolto con epigrafe nella distrutta chiesa di S. Angelo. Discendeva forse dal celebre G. B. Ferretti prima pubblico lettore di Diritto in Padova e poscia Consultore della Repubblica, il quale riposa in chiesa di S. Stefano, ove nel 1557 Giulia Zorzi, moglie di lui, gli costrusse un sarcofago fra l'altare della SS. Annunziata e quello di S. Agostino. Questo sarcofago nel 1704, dietro accordo tra i frati e Caterina Fossa, vedova di Pietro Ferretti, venne trasportato sopra la porta che mette nel chiostro, e finalmente nel 1742, dietro altro accordo tra i frati e Pietro e Giacomo fratelli Ferretti q. G. Battista, dalla porta del chiostro (ove si collocò il monumento dell'Alviano) nella cappella di S. Tommaso di Villanova, col patto che essi frati restituissero ai Ferretti il busto del consultore lavorato dal Vittoria, ed altro ne sostituissero a loro spese. Ferro (Fondamenta del) a S. Bartolammeo. Questa Fondamenta dicevasi dapprima della «Moneta», non pel danaro che pagavasi ad effetto di tragittare il «Canal Grande», ma per un vetustissimo edificio, il quale, come si ricava dall'atto di vendita che ne fece Ordelafo Falier (an. 1112), era qui situato, e serviva ad uso di zecca: «ubi antiquitus, usque modo nuper, nostra fuit, et laborabatur moneta». In appresso la fondamenta medesima si disse «del Vin» dalle barche cariche di vino che vi approdavano. Infatti si legge che Bajamonte Tiepolo nella sua fuga fece tagliare il «Ponte di Rialto» dalla parte di S. Bartolammeo, e ritirare le barche da vino. Inoltre il Sabellico («De Situ Urbis») scriveva che a questo sito «haerent mercatoriae exotici Italicique vini naves ita inter se frequentia stipatae ut mutuus sit inter illas transcensus». Per lo contrario chiamavasi a quei tempi «del Ferro» la Fondamenta opposta, leggendosi di essa nel medesimo Sabellico: «Tota ripa ab ipso mercium genere ferraria nuncupata est». In seguito però, mutata vicenda, si stabilì che il ferro dovesse essere venduto sulla fondamenta che è presso San Bartolammeo, ed il vino sull'altra che termina con S. Silvestro. Da quell'epoca le due Fondamente, o Rive, accennate, fecero tra di loro un mutuo cambio di nome. Fica (Calle) a Castello. Secondo la Descrizione della contrada di S. Pietro di Castello pel 1713, questa Corte era primitivamente chiamata non «Fica», ma «Figheta». Sappiamo poi che una famiglia di tale cognome abitava a Castello tanto dal Necrologio del 1630, ove si registra come defunta nel circondario di S. Pietro di Castello a' dì 3 novembre «D.a Anzola moglie de Zuane Ficheto», quanto dall'Anagrafi pell'anno 1633, ordinata dai Provveditori alla Sanità, che annovera fra i parrocchiani di S. Pietro una «Maria Figheta». Fico (Ramo Calle del) in Birri. Alcune strade si denominarono dagli alberi, o piante vicine. Abbiamo quindi, oltre all'accennato, i nomi seguenti, talora ripetuti: «Calle del Figher» (fico), «Calle», «Campiello», «Corte del Figaretto» (piccolo fico), «Calle», «Campiello dei Pomeri» (pomai), «Calle della Vida» (vite). Figaretto (Calle, Campiello, Corte del) a S. Pietro di Castello. Vedi Fico (Ramo ecc. del). Figher (Calle del) a San Giovanni Nuovo. Per questa località, ed altre d'egual nome, vedi Fico (Ramo ecc. del). Figheretto. Vedi Figaretto. Filatojo (Sottoportico del) a S. Maria Mater Domini. E' così detto anche nella Descrizione della contrada pel 1661 senza che allora vi abitasse alcun «filatojo», o filatore. Vi avrà abitato antecedentemente, e forse nel principio di quel medesimo secolo XVII, trovandosi nei Registri Sanitarii decesso nella parrocchia di S. Maria Mater Domini il 26 febbraio 1614 M. V. «Bortolo fio de m. Bortolo filatojo de g.ni 40». Sotto il nome di «filatoj» comprendevansi, per attestato della Statistica del 1773, i filatori di seta, e quelli d'altri fili. Quest'arte avea scuola di divozione, sotto il patrocinio di S. Anastasio, presso la chiesa di S. Ternita. Il Cicogna cita uno strumento del 9 agosto 1488, confermato nel giorno 10 susseguente, donde apparisce fatta convenzione tra il pievano, ed il capitolo di S. Ternita da una parte, ed il capitolo dell'arte dei Filatoj, dall'altra, in forza di cui «la casa della scuola della SS. Trinità, et del glorioso martire missier Santo Anastasio» venne data alla detta scuola per «precio di ducati tre ano, et a rason d'ano, et questo per fitto in perpetuum» con altre condizioni ed obblighi da ambedue le parti. La Scuola dei «Filatoi» fu rifatta nel 1697, secondo un'iscrizione che lo stesso Cicogna lesse sopra un pilastro di pietra nel campo di S. Ternita, oggidì più non esistente. Filosi (Calle) a S. Maria Mater Domini. Una famiglia Filosi era qui domiciliata nel principio del secolo presente. Varie famiglie di tale cognome trovansi nelle patrie memorie. La più distinta è quella che, avendo fatto una rilevante offerta in occasione della guerra di Candia, stava nel 1649 per essere ammessa al Maggior Consiglio in un «Fedel Domenico Filosi q. Francesco», il quale però ebbe il dolore di vedere non passata la «parte». Finetta (Ramo) a S. Sofia. La cittadinesca famiglia Finetti venne nel secolo XIV da Ferrara, oppure, secondo altre cronache, da Monte Lupo nella Marca d'Ancona. Era divisa in più rami, uno dei quali, fino dal secolo XVI, possedeva stabili in parrocchia di Santa Sofia, come si rileva dalle notifiche ai X Savii per la Redecima del 1514, e dalle «Iscrizioni Sepolcrali», raccolte dal p. Rocco Curti (Classe XIV, codici 103, 104 della Marciana), ove si ricorda un «M. Francesco Finetti dalla contrà di S. Sofia», sepolto ai 5 febbraio 1555 nel chiostro di S. Stefano Protomartire, in una arca con sopra il leone, arma della famiglia. Quest'arma scorgesi tuttora col motto: «Dominus custodiat introitum et exitum», all'ingresso del «Ramo Finetta» a S. Sofia, nella qual località i Finetti, quantunque la loro casa dominicale fosse passata in altrui proprietà, continuavano a possedere stabili nel 1661. Un altro ramo di questa famiglia si rese celebre in Venezia per alcuni giureconsulti di chiarissima fama. Fioravante (Sottoportico) sulle Zattere. Essendo denominazione moderna, non si trova negli estimi della Repubblica. Nel 1805 i fratelli «Giovanni e Pietro Venier q. Ferigo» notificarono d'appigionare una casa sulle «Zattere», presso il «Ponte Lungo», al «R.do D. Camillo Fioravante». Essa portava il C. N. 1411, corrispondente all'anagrafico 1381, e tuttora si vede sovrastare al «Sottoportico Fioravante». Fiorenzuola. Vedi Anatomia. Fiori (Campiello, Fondamenta dei) a S. Fosca. La Descrizione della contrada di S. Fosca pel 1713 pone in questo «Campiello» una «bottega da fiorer» del «N. U. Antonio Michiel», tenuta a pigione da «Francesco Zanotto». Non lungi dal «Campiello dei Fiori» scorgesi un palazzo con prospetto archiacuto sul «Rio di Noal», il quale apparteneva prima ai duchi d'Urbino, poscia ai Donà, e quindi ai Giovanelli, cui appartiene tuttora. Per esso vedi la nostra opera pubblicata dal Fontana nel 1879 col titolo: «Alcuni palazzi ed antichi edifici di Venezia storicamente illustrati». Anche il «Ramo dei Fiori» a S. Felice trasse il nome da un venditore di fiori, e non già, come vorrebbe il Dezan, da un prossimo orto, già posseduto da Filippo Corner. L'arte dei «Fioreri», eretta in corpo nel 1716, contava nel 1773 diciassette botteghe, dieci posti, trentadue capi maestri, alcuni lavoranti, e quattro garzoni. Facendosi grand'uso di fiori freschi, specialmente nelle nozze, in cui il compare doveva regalare alla sposa la così detta «banda», alquanto elevato era il loro prezzo negli ultimi tempi della Repubblica, ed havvi memoria che un bel garofano costava d'inverno persino lire venete dieci. Fiubera (Calle, Sottoportico) a S. Giuliano. Vuole il Berlan che qui esistessero alcune botteghe da «fiube» (fibbie). In una parte del Maggior Consiglio presa nel 1476 allo scopo di correggere gli abusi del lusso, si ordina che «la fiuba e il cao» (cintura da donna) «non valgano più di ducati quindici». I nostri padri portavano eziandio ricche fibbie alle scarpe, ora quadrate, ora rotonde, ed ora ovali. I vecchi le preferivano d'oro, i giovani d'argento, ma molto grandi, e tali che da ambe le parti toccassero il suolo. Flangini (Calle, Campiello) a S. Geremia. Il palazzo Flangini appartiene alla scuola del Longhena, ma sventuratamente il suo prospetto, che guarda il «Canal Grande», è mancante dell'ala destra. La famiglia che lo possedeva fu nobile nell'isola di Cipro, e fino dal 1376 produsse un Alvise che versò il proprio sangue a pro della patria, morendo nella presa di Nicosia. Anche un Costantino vescovo di Pafo, un Giovanni, ed un altro Costantino perirono sotto le scimitarre turchesche. Trasferitasi poscia questa famiglia a Venezia, conseguì dalla Repubblica il titolo comitale di S. Odorico, e dall'imperatore Ferdinando III la nobiltà del Sacro Romano Impero. Finalmente nel 1664 venne ammessa al Maggior Consiglio nella persona d'un Girolamo, padre di quel Lodovico, che attaccò la flotta Ottomana ai Dardanelli. Questo eroe, dopo due giorni di feroce combattimento, ferito mortalmente, si fece portare sul cassero della nave per meglio ordinare la battaglia, e coronare coll'ultimo respiro la vittoria de' suoi. I Flangini si estinsero in un altro Lodovico, uomo dottissimo e pio, che morì nel 1804 cardinale patriarca di Venezia. Fondamenta. Le «Fondamenta» sono strade marginali che si stendono lungo i rivi della città. Vengono così dette perché servono di base, o di fondamento agli edifici. Dapprima si fecero di terra legata con graticci e sterpi, poscia di legname, e finalmente di pietra. Alcune fondamente, che danno sul «Canal Grande», o sulla laguna, prendono il nome di «Rive». Fontana (Calle) a S. Felice. Un «Giovita Fontana q.m. Bartolammeo» da Piacenza, ove la di lui famiglia trovavasi in nobile condizione, trasmigrò nel 1549 a Venezia. Qui esercitò la mercatura, ed un figlio di lui, per nome Giovanni, fondò un palazzo a San Felice con prospetto risguardante il «Canal Grande», sullo stile sansovinesco. Un Pietro, figliolo di Giovanni, venne eletto nel 1646 da Enrico di Lorena, duca di Guisa, governatore di Caserta nel regno di Napoli, e maritò le quattro sue figlie in veneti patrizii. Ebbe pure varii maschi, uno dei quali, per nome Luigi, fu il primo che nel 1700 venisse ascritto all'ordine dei Veneti Secretarii. La famiglia Fontana, ammessa al Consiglio di Padova nel 1771, e confermata nobile dal governo Austriaco nel 1819, oltre il palazzo a S. Felice, ove nacque nel 1693 il pontefice Clemente XIII, ne possedeva un altro a S. Antonino, che le venne per eredità dai Padavin, e che dà il nome al «Ramo Fontana» colà situato. A questa famiglia appartenne quel Gian Jacopo, amoroso cultore delle patrie memorie, non ha guari decesso. Una «Corte Fontana» trovasi pure a S. Marina, e derivò il nome da un'altra famiglia cittadinesca di questo cognome. Un «Paolo Fontana» abitava nel 1566 in parrocchia di S. Marina, «in le case di ca' Dolfin». Veggasi lo stemma Dolfin scolpito tuttora sopra un fabbricato che riferisce in «Corte Fontana» a S. Marina. Fonte (Calle) alla Madonna dell'Orto. La famiglia Fonte venne da Bergamo, ed in Venezia esercitava la mercatura. Un Giulio Fonte, citato all'«Avogaria» come testimonio il 9 febbraio 1605 M. V. pell'aggregazione alla cittadinanza originaria d'un Andrea Canal, e chiamato nel relativo processo: «D. Julius Fonte mercator, habitator Venetiarum in contracta S. Marcialis in domo super rivo S. Mariae ab horto». Questa famiglia, fatta patrizia nel 1646 mediante il solito esborso dei cento mila ducati, continuò ad abitare alla Madonna dell'Orto fino alla sua estinzione, avvenuta nel 1766. Ciò rilevasi dai «Libri d'Oro». Anche alla Maddalena abbiamo una «Calle del Fonte», probabilmente denominata dalla famiglia medesima. Fonteghetto (Calle del) a S. Geremia. Da un «fonteghetto» (piccolo fondaco) di farine, il cui stabile apparteneva alla Scuola Grande di S. Marco per la commissaria di Matteo Feletto. Forse questo era uno di quei «Fonteghetti privati della Dominante», contro i quali troviamo promulgate varie leggi dal 1608 al 1706. Formagier (Salizzada del) a S. Canciano. In capo a questa Calle il «formagier» o venditore di formaggi, esiste tuttora. Altre strade sono pel medesimo motivo così denominate. Per quest'arte vedi Casarìa. Formenta (Corte) a Castello. All'ingresso di questa Corte, ancora pochi anni sono, scorgevansi rozzamente scolpite tre grosse spiche di frumento, stemma della famiglia Formenti ascritta alla cittadinanza originaria. Un'«India Formento relita q. s. Angeli Formento», e figlia di «Neri de Pretasiis» da Firenze, essendo per recarsi in Terra Santa, fece testamento il 28 giugno 1455 in atti Giovanni Benato pievano di S. Vito, lasciando suoi commissarii i Procuratori di S. Marco, ed ordinando che, con le sette case che qui possedeva, si facesse un ospizio, intitolato di S. Maria della Scala per quei pellegrini maschi, i quali andavano a visitare il S. Sepolcro, e ritornavano da quel viaggio. Dispose poi che nell'ospizio suddetto si dovesse porre la seguente epigrafe: Peregrine Memorare Cum Fueris Ad Loca Santa Rogare Deum Pro Anima Dominae Indiae Quae Pro Vestro Reductu Fieri Fecit Hoc Ospitale. Cessati i pellegrinaggi, l'ospizio istituito dalla Formento si rivolse ad uso di poveri. Perciò i Procuratori «De Citra» notificarono nel 1661 ai X Savii alcune casette a Castello in «Corte Formenta», derivanti dalla commissaria d'«India Formenti», le quali si concedevano «amore Dei» a povere famiglie. La famiglia Formenti, venuta da Poveglia, ritrovavasi fra noi fino dal 1340, e si divise in varii colonnelli. Fra parecchi altri uomini distinti produsse un Giovanni, eletto, dopo più di 20 legazioni e residenze, a Cancellier Grande nel 1580, il quale morì nel 1585. Così ne parla nelle sue «Cose Notabili di Venetia» il Bardi fiorentino: «Giovanni da fanciullo, datosi alle cose di Cancelleria e maneggi del Dominio, in modo col tempo si avanzò pratica e teorica di cose simili che si può dire non vi essere potentato alcuno ove egli non sia stato al servigio di questi Signori, e pur nel trattar la lega, che fu tra il Papa, il re di Spagna, e questo Senato contro il Turco si conobbe la virtù sua palese. Dal che mossi, in guiderdone di tante fatiche, lo hanno ora assunto al grado di Cancellier Grande, che è il maggior che si possa acquistare dai cittadini». Fornace (Calle della) a S. Giobbe. Da una fornace di pietre tuttora esistente. I padroni delle fornaci, ed i lavoratori di mattoni esercitavano liberamente la loro industria senza alcun vincolo reciproco, e senza alcun privilegio. Non avevano né corpo d'arte, né statuto. Le leggi determinavano però le misure delle «piere elete» (mattoni), dei «tavelli» (pianelle), e dei «copi» (tegole). Altre leggi prescrivevano il tempo di lavorare l'argilla, che doveva farsi nella state, mentre la cottura delle fornaci si eseguiva d'inverno con le cannucce e le vermene dei giunchi delle paludi. Vigilavano all'eseguimento di queste leggi i «Giustizieri Vecchi», ed i «Provveditori della Giustizia Vecchia». I fornaciaj dividevansi fra loro, secondo i guadagni, la piccola tassa che pagavano al «Collegio della Milizia da Mar», il qual magistrato decideva sulle controversie relative alle divisioni. Secondo la statistica del 1773, sei erano i padroni di fornace, e trenta gli uomini di lavoro. Alcune altre strade di Venezia furono in origine per la medesima causa così appellate. Fornaci (Fondamenta delle) alla Giudecca. Due fornaci diedero questa denominazione. Forni (Calle dei) a S. Martino. Fino dagli antichi tempi eranvi in questo sito alcuni forni per approvvigionare le milizie marittime e terrestri. Nel secolo XV ebbero un rinnovamento. Scrive il Sanudo che nel 1473 «forono fabbricati a S. Martino sulla riva di Canal, trentadue forni nuovi per far biscotti, e spesi ducati ottomila». Altro ristauro ricevettero nel 1596, come da iscrizione tuttora esistente. Il biscotto che confezionavasi in questi forni, quanto in quelli costrutti posteriormente nell'isola di S. Elena, aveva la proprietà, per un singolare magistero adesso ignoto del tutto, di non subire l'attacco del tarlo in guisa che l'anno 1821 si trovò ancora perfettamente sano alquanto biscotto lasciato dai Veneziani in Candia quando nel 1669 cessero quell'isola ai Turchi. La sorveglianza di tale annonaria amministrazione era incombenza della così detta «Camera all'Armar», che immediatamente dipendeva dal «Savio alla Scrittura». I forni di S. Biagio soggiacquero a casuale incendio nel 1646, e nel 1821, dopo la qual epoca quattro soltanto ne vennero rifabbricati. Di faccia ai «Forni» di San Martino stava approdata il primo maggio 1721 una tartana turchesca, gli uomini della quale, sotto pretesto di aver ricevuto non sappiamo quali dispiaceri dai nostri, s'accinsero ad offendere con armi da fuoco tanto chi passava per terra, quanto chi passava per acqua, e ciò in quell'ora appunto che il Doge e la Signoria ritornavano sui peatoni dorati dalla visita alla chiesa delle Vergini, come ogni anno, per rito, in quel giorno si costumava. Già un marinaio inglese ed un arsenalotto erano caduti vittime di quella bordaglia, quando incominciossi a suonar campana a martello in varii punti della città, e molta gente trasse sulla «Riva degli Schiavoni». Né tardarono alcuni coraggiosi Dalmati a salire sopra una barca prossima alla tartana, ed a mettervi fuoco, costringendo i Turchi a gettarsi in acqua, per quindi perire sotto i colpi partiti da alcuni battelli colà attorno ad arte appostati. Foscara (Corte) a S. Moisè. Il N.U. Francesco Foscari, che possedeva il palazzo a S. Barnaba, notificò pure nel 1740 varie case in «Corte Foscara» a S. Moisè. Per la famiglia vedi l'articolo seguente. Foscari (Calle, Ponte, Rio, Calle) a San Barnaba. Regale invero è il palazzo che qui sorge, fatto fabbricare dai Giustinian alla fine del secolo XIV, oppure al principio del XV. Esso chiamavasi volgarmente il «palazzo delle due torri», per le due torri che aveva sul comignolo. Venne comperato dalla Repubblica nel 1420 per 6500 ducati affine di farne un regalo al Marchese di Mantova, ma nel 1438 gli fu tolto, e nel 1439 donato al conte Francesco Sforza, al quale del pari nel 1447 venne confiscato. Quindi, posto all'incanto, passò in proprietà nel 1452 del doge Foscari, che lo rifabbricò in più magnifica maniera, trasportandolo, come dice il genealogista Girolamo Priuli, «dal loco ove hora è la corte al canton del rio, sopra Canal Grande, che va a San Pantalon, ove hora si vede, lasciando il cortile di dietro, ove prima era essa casa». Disceso il Foscari da antica famiglia, venuta dalla villa di Zelarino, presso Mestre, nel secolo IX, e chiara per uomini cospicui, resse per trentaquattro anni gloriosamente lo stato, stendendone i confini da una parte fino all'Adda, e dall'altra fino all'Isonzo. Ma sul tramonto della vita ebbe a sofferire molte immeritate traversie, poiché dovette vedere l'unico suo figlio Jacopo due volte posto a confine, torturato, e costretto a morire lungi dalla patria. E poiché a tanto colpo mal reggeva l'animo del vecchio, né più attendeva colla solita alacrità ai pubblici affari, egli venne, in età di anni 84, deposto per decreto del Consiglio dei X. Il 22 ottobre 1457, alla presenza della Signoria e dei Capi dell'anzidetto Consiglio, gli fu tratto di dito l'anello ducale e spezzato; quindi gli fu tolto il corno col camauro sottoposto. La cronaca contemporanea del Dolfin (Classe VII, Codice 794 della Marciana) ci conservò le parole pronunziate dall'infelice in quei supremi momenti. Vedendo Jacopo Memmo, Capo di Quaranta, che in sul partire compassionevolmente guardavalo «Di chi estu fio?» gli disse. E sentendosi rispondere: «di Marin Memmo» soggiunse «L'è mio caro compagno; dilli da mia parte che averò caro ch'el ne vegna a visitar, acciò el vegna con mi in barca a solazzo; anderemo a visitar i monasteri». Il giorno seguente, nell'abbandonare la ducal residenza, volle discendere pella scala principale, non curando l'avvertimento del fratello Marco che gli disse: «Serenissimo l'è bono che andemo a montar in barca per l'altra scala de soto a coverto» e rispondendogli «Io vogio andar zoso» (giù) «per quella scala per la quale ascesi in dogado». Poscia, ritiratosi nel suo palazzo di S. Barnaba vi morì oppresso da vecchiezza ed affanno, il primo novembre dello stesso anno 1457, non però, come finsero i romanzieri, all'udire le campane di S. Marco, annunzianti la nomina del di lui successore Pasquale Malipiero, essendo questi entrato in carica fino dal penultimo ottobre, alle due ore di notte. Nella stanza in cui cessò di vivere Francesco Foscari s'albergò nel 1699 Maria Casimira regina di Polonia, mentre in un'altra di fronte aveva abitato nel 1574 Enrico III, insieme ad Eleonora di Francia, quando, lasciato il trono di Polonia, passava pell'Italia onde cingersi il diadema di Carlo IX. Il palazzo Foscari, in cui albergarono molti altri principi, perduto ai nostri tempi dai suoi nobili proprietarii, e ridotto a misera condizione, fu acquistato e ristaurato dal nostro Municipio per uso di pubbliche scuole. Il Sanudo ha una bella descrizione delle feste che si fecero nel 1513 in questo palazzo per le nozze di Federico Foscari con una figlia di Giovanni Venier. Nel 1747, secondo il Codice Cicogna 3255, si celebrò una caccia di tori, con palchi e scalinate all'intorno, nella corte del palazzo medesimo. Esso il 26 gennaio 1750 M. V. andò soggetto ad incendio. Una delle Calli Foscari è detta anche «del Pignater». Vedi Pignater (Calle del). Franceschi (Rio terrà dei) a' SS. Apostoli. La denominazione di questo Rivo, il quale, prima del suo interramento, era attraversato da un piccolo ponte, pur esso detto «dei Franceschi», ricorda una delle nostre cittadinesche famiglie Franceschi, che qui abitava. Un Lucio, figlio di Alvise Franceschi, «spezier», dai SS. Apostoli, testò il 7 febbraio 1524 M. V. in atti Bonifazio Solian, volendo essere sepolto nella sua arca in chiesa dei SS. Apostoli. Ed un Pietro Antonio, figlio di Giovanni Franceschi, pose tomba nel 1581 nella stessa chiesa a suo fratello Gaspare, mercatante, prescrivendo poi, con testamento 15 decembre 1595, in atti di Andrea Catti, di venire colà esso pure sepolto. Questa famiglia aveva per arma un leone attraversato da una fascia caricata da tre stelle. Franchi (Calle dei) a S. Vito. In parrocchia di S. Agnese, a cui era sottoposta questa via, troviamo fino dal secolo XV una famiglia Franco divisa in più rami, uno dei quali anticamente apparteneva all'arte dei «varoteri» (pellicciai). Il ramo accennato che, secondo i registri dell'«Avogaria», abitava «in la Calle dei Franchi», venne ascritto alla cittadinanza originaria in Lodovico, figlio di Martino Franco, e Maria Bonaldi, il 28 aprile 1574. Anche nel 1661 «Antonio e Bernardo Franco q.m Anzolo, Anastasio e Piero fratelli Franco, e Lucieta Franco q.m Piero d'Arquà» notificarono di possedere stabili a «S. Agnese in Calle dei Franchi». A questa famiglia forse apparteneva la celebre poetessa Veronica Franco, poiché sotto il di lei ritratto, veduto dal padre Degli Agostini, eravi uno scudo diviso da una fascia con 4 stelle per entro, e nel fondo tre monticelli (stemma attribuito ad una delle cittadinesche famiglie Franco dalle cronache), ed all'ingresso appunto della «Calle dei Franchi» a S. Agnese scorgesi tuttora uno scudo consimile, diviso da una fascia colle 4 stelle, quantunque dei monticelli mancante. E qui si ponga mente all'errore d'Apostolo Zeno, che in una postilla manoscritta all'esemplare delle «Terze Rime» di Veronica Franco, da lui posseduto, ed ora esistente nella Marciana, giudicò che tutti i Franco da S. Agnese fossero di basso ceto, e pescatori. Frari (Parrocchia, Fondamenta, Ponte, Campo, Rio dei). Fino dal 1227, un anno dopo la morte di S. Francesco, erano giunti a Venezia alcuni de' suoi più fervorosi seguaci. Qui vivevano d'elemosine, passavano i giorni lavorando sotto il vestibolo delle chiese, particolarmente di S. Lorenzo, e di S. Silvestro. Il governo loro diede da abitare un'antica ed abbandonata abazia di monaci Benedettini, dedicata a Maria Vergine, e posta sul confine delle due parrocchie di «S. Tomà» (S. Tommaso), e «S. Stin» (S. Stefanino, o S. Stefano confessore). I padri dilatarono a varie riprese il convento coi lasciti dei fedeli, e dopo il 1250, sul disegno di Nicolò da Pisa, diedero mano all'erezione d'un magnifico tempio intitolato a S. Maria Gloriosa, e detto poscia dei «Frari», corruzione di «frati», per la numerosa religiosa famiglia che lo uffiziava. Questo tempio aveva la facciata volta a mezzogiorno, e giungeva colla cappella grande fino sopra il canale. Sembra che venisse rifabbricato, come si vede al presente, nel secolo XV, ed è certo che ebbe consecrazione nel 1492 per mano di Pietro da Trani vescovo Telesino. Il campanile venne fondato nel 1361 da Jacopo Celega, e condotto a termine nel 1396 da Pietro Paolo figlio di lui. Vasto è il convento, che dopo l'incendio del 1369, in cui perì il beato Carissimo da Chioggia, fu rinnovato, e che più tardi fu decorato con due chiostri, l'uno del Palladio, l'altro del Sansovino. Fiorirono in esso molti uomini insigni, fra i quali Francesco Dalla Rovere, poscia Sisto IV, e Felice Peretti, poscia Sisto V. Vi risiedeva eziandio nel secolo XIV il tribunale dell'Inquisizione. All'epoca della soppressione degli ordini religiosi, la chiesa di S. M. Gloriosa dei Frari divenne sede d'una parrocchia formata coi circondarii di quelle di S. Tommaso, e di S. Stefano confessore, allora soppresse, e con altre finitime contrade, ed il convento, unitamente alla chiesa e convento di S. Nicolò della Lattuga, ed alla Scuola di S. Antonio, si convertì nel 1815 in Archivio, al qual uso si presta tuttora. Il «Ponte dei Frari» venne fabbricato per la prima volta, a spese dei Padri, in virtù di parte e concessione del Maggior Consiglio 10 ottobre 1428, a sostituzione d'altro ponte poco lontano, già reso cadente per vetustà, di cui parla un documento coll'anno 1382. Ai nostri tempi venne rifatto. I padri volevano che il «Ponte dei Frari» fosse luogo d'immunità pei delinquenti, dicendo che dovevasi considerare come sacro, perché un tempo «la chiesa dei frari era lì, et era lì la capella granda, che adesso è voltada». Vedi Sanudo, «Diarii», Vol. XL, p. 29. Fraterna (Campiello, Ramo Calle, Ramo secondo della) a S. Antonino. Da un pio stabilimento, che era diretto a soccorrere i poveri vergognosi, e che chiamavasi la «Fraterna Grande». Leggesi nelle Condizioni del Sestiere di Castello pel 1661: «Noi governatori della fraterna dei poveri vergognosi di questa città diamo in nota tutto quello che possiede essa fraterna: Una casa in contrà di S. Antonino, chiamata la Fraterna, la quale si tiene per uso proprio di questa pia e santa opera, poiché in essa ci riduciamo ogni giorno, ove si celebra la messa per comodità di questi fratelli che vanno a visitare i poveri, dove sono portate e custodite le elemosine finché si dispensano, e dove parimente vengono portate le polizze dei poveri vergognosi, e quelle dei R.di Pievani, che fanno fede degli infermi. Quivi si mantiene una spezieria per servigio e bisogno dei poveri di tutta la città, e quivi si custodiscono le scritture e tutte le cose della fraterna» ecc. La Fraterna Grande venne fondata, come scrive il Coronelli, nel 1535 da Bartolammeo Nordio, bergamasco, mercante di legname. Essa possedeva 50 mila ducati di rendita, che impiegava in opere di beneficenza, sussidiando un gran numero di persone, fra le quali molti patrizii decaduti, secondo le disposizioni testamentarie di alcuni di questo ordine, e liberando ancora ogni anno, nelle feste di Natale, e di Pasqua, alcuni carcerati per debiti. Nel locale della Fraterna a S. Antonino risiedette per qualche tempo l'«Istituto Manin», ora trasportato in Cannaregio. Vedi Spagna (Lista di). Frescada (Ponte, Rio, Calle, Fondamenta della) a «S. Tomà». A torto il Dezan, ed il continuatore del Berlan credono «frescada» corruzione di «frascata», e vogliono originato il nome dalle frasche, o frondi, che verdeggiavano un tempo nella prossima vigna di «S. Tomà». Il nome deriva invece (come notano il Cod. 722, Classe VII della Marciana, ed il Pivoto) dalla patrizia famiglia Dalla Frescada, venuta dall'Istria, oppure dalle Contrade, che andò estinta, secondo la maggior parte dei cronisti, in un Nicolò il quale nel 1342 fu uno fra gli elettori del doge Andrea Dandolo, e viveva anche nel 1379. Ricorda il Barbaro («Alberi Genealogici» della raccolta Cicogna) che questa famiglia possedeva un palazzo, ove abitava, in parrocchia di S. Pantaleone, il quale, dopo la di lei estinzione, passò in un ramo dei Corner, anch'esso perciò soprannominato Dalla Frescada. Il palazzo suddetto è quello di stile archiacuto, che sorge in fondo alla «Fondamenta della Frescada», e che dalla «Calle della Frescada» viene costeggiato, località non lontane dalla chiesa di «S. Tomà», ma sottoposte un tempo, come adesso, alla parrocchia di S. Pantaleone. Esso venne in seguito posseduto dai Loredan, e quindi dai Foscarini-Garzoni. Sembra poi che la famiglia Dalla Frescada avesse altre case nelle vicinanze, poiché il Curti nella sua «Cronaca Breve di Famiglie Nobili» (Cl. VII, Codici 202, 203 della Marciana), racconta che Marco Dalla Frescada, «morendo senza figliuoli, con suo testamento ordinò che, vendute le sue case che erano nei contorni della chiesa di S. Tommaso Ap., con tutte le altre sue possessioni, et averi dai Proc. di S. Marco de Ultra, suoi commissarii, il ricavato impiegato fosse nell'edificazione d'un ospitale per li poveri, al che fu adempiuto con la erezione di quello sta nei contorni della chiesa di S. Vito, in un rivo nominato delle Pietre Bianche». Ciò concorda con un'altra cronaca più antica, citata dal Gallicciolli. Avvertasi però che la vera data del testamento di Marco Dalla Frescada è l'anno 1320, come si può leggere sulla porta dell'ospitale, od ospizio, tuttora sussistente a S. Vito, presso il rivo delle «Piere Bianche», ora delle «Torreselle». E ciò serva a rettifica delle cronache accennate, che pongono il fatto come avvenuto alquanto tempo prima. Frezzarìa (Piscina, Ramo di) a S. Marco. La «Frezzeria», o «Frezzaria», detta nel Sabellico «vicus sagittarius», ebbe tal nome, come nota il Marin, perché vi si vendevano frecce. Infatti, un «Giacomo de Zuane frezer», ed un «Bartolomeo de Zuane frezer» dalla parrocchia di S. Moisè, a cui la «Frezzeria» era soggetta, trovavansi ascritti, il primo nel 1471 alla Scuola Grande di S. Marco, ed il secondo nel 1473 a quella di S. Giovanni Evangelista. Inoltre, moltissimi «frezeri» morirono nella medesima parrocchia l'anno 1576, epoca della pestilenza. Alcune leggi del secolo XIV ci fanno conoscere che i Veneziani erano obbligati ad esercitarsi nel trar di balestra, e che i Capi Contrada dovevano iscrivere tutti gli uomini del loro circondario dai 16 ai 35 anni, dividerli in ischiere, e mandarli, una volta alla settimana, i plebei di festa, ed i nobili in altra giornata, a frecciare al bersaglio. Tali ragunate si facevano al suono di un'apposita campana, essendo stabilito che il principale luogo dell'esercizio fosse la spiaggia del Lido con premio proposto dal Dominio. Pel trasporto stavano pronte dopo il mezzodì alla «Piazzetta» certe barche, «ganzaroli» appellate, le quali si vogavano dagli stessi saettatori. Anche nel secolo XVI frecciavasi al Lido, e, nota il Sanudo, che ai 3 di giugno 1514 si stabilì di trarre cogli archi invece che colle balestre, perché le «freze di balestra non erano perfete». In seguito però, per decreto del Consiglio dei X, incominciossi a trarre con «schiopeti et archibusi», finché, mutata affatto la maniera di guerreggiare, rimasero soltanto in vigore gli esercizii a fuoco, che specialmente dai bombardieri si facevano così al Lido, come in appositi punti della città. Leggesi nei «Diarii» del Sanudo: «12 luglio 1518. In questo zorno a hore 12 se impiò fuogo in Frezzaria dove stanno i capelleri, et si bruxò 5 caxe de s. Antonio Zustinian». In «Frezzeria», all'insegna del «Sole», eravi l'officina di Giacomo Franco, celebre incisore in rame, e calcografo, nato nel 1550. Egli testò il 12 giugno 1620 in parrocchia di S. Moisè negli atti del notajo Fausto Doglioni, lasciando qualche ricordo ai pittori Tizianello, e Palma il Giovane. Morì il giorno ventotto successivo. In «Frezzeria», e precisamente nella casa che sta sopra il negozio di coloniali Giudica, e che fu più tardi abitazione dell'avvocato Avesani, soggiornò Lord Byron presso un negoziante di panni, la cui moglie fu il primo scopo delle sue cure amorose in Venezia. Presso il sottoportico, prossimo alla «Piscina di Frezzeria», il 14 giugno 1859, un soldato allo stipendio dell'Austria, uccise col suo moschetto un ragazzo appellato Luigi Scolari, in occasione del tumulto suscitatosi fra il popolo al falso annunzio che Venezia stava per rimanere libera. Nel luogo dell'avvenuto fu posta nel 1867 una epigrafe offensiva agli Austriaci, la quale dalla prudenza del senatore Torelli mutossi in quella che presentemente si vede. Per la spiegazione del nome Piscina vedi Piscina o Pedrocchi (Calle). Friziera (Calle) a Castello. Un «Marco Frizier fo de m. Gasparo» notificò nel 1514, di possedere, oltre varie case a San Geremia, ove abitava, ed altri beni, 12 case «in Chastello per mezzo» (di faccia) «S. Domenego». L'arma della cittadinesca famiglia Frizier, la quale anticamente aveva bottega in «Drapperia» a Rialto coll'insegna dell'«Albero d'Oro», consisteva, come ci addita il Codice 91, Classe VII della Marciana, in una torre con un albero al disopra, e due draghi l'uno per parte. Quest'arma scorgesi tuttora scolpita a Castello sopra la facciata di una casa all'ingresso della «Calle Friziera». L'altro Codice 939, che, sebbene con qualche piccola diversità, attribuisce ai Frizieri l'arma medesima, porge di essi i cenni seguenti: «Questi vennero da Chiozza; erano mercadanti de bona condition, et per le guerre vennero habitar a Venetia, et fecero molte fabbriche, et logorno el corpo de S. Magno nel suo altar in S. Hieremia, el qual S. Magno habitava in una delle sue case in detta contrà». Un Francesco Frizier venne eletto Cancellier Grande nel 1575, parlando del quale, la cronaca altrove citata col titolo: «Memorie concernenti le Vite dei Veneti Cancellieri Grandi», così si esprime: «Nel sestier di Castello vi è una corte che si chiama Friziera, o da ca' Frizier, dove è probabile che fosse la paterna sua casa». Ma giova osservare che, secondo alcuni, Francesco Frizier apparteneva ad un'altra famiglia del medesimo cognome, e che per certo egli portava arma del tutto differente, come può vedersi nei citati due Codici 91 e 939. Fumo (Calle del) in «Birri», a S. Canciano. Vuolsi così detta da una fabbrica di negrofumo. Veramente l'Anagrafi pel 1633, e quella pel 1642, ordinate dai Provveditori alla Sanità, annoverano fra gli artisti domiciliati in parrocchia di San Canciano un «Tommaso Gambarin dal fumo». La stessa causa diede probabilmente lo stesso nome in epoca più antica alla «Calle e Ramo del Fumo» a S. Marco, sottoposti un tempo alla parrocchia di S. Geminiano. E noi scorrendo i Necrologi del Magistrato alla Sanità, abbiamo trovato, che il giorno 8 decembre 1550 morì in quella parrocchia una «D.a Jacoma dal fumo». Furàtola (Calle, Ponte, Sottoportico della) a S. Apollinare. Chiamavansi, e chiamansi tuttora «furatole» alcune bottegucce simili a quelle dei pizzicagnoli, ove vendesi pesce fritto ed altri camangiari, ad uso della poveraglia. Deriva il vocabolo «furatola» o da «foro», essendo tali bottegucce altrettanti piccoli fori, o stanzini, a pian terreno; o dal barbarico «furabola», che, secondo il Ducange, equivale a «tenebrae», essendo le medesime oscure ed annerite dal fumo; o finalmente da «furari» (rubare) per le frodi, o rubarie, che vi si commettevano, punite in antico con multa, e perdita dell'esercizio. Varie leggi conosconsi relative alle «furatole». I «Furatoleri» non potevano vendere alcun genere riservato ai «Luganegheri», né condire i cibi con cacio, «onto sotil», ed altro grasso. Chiunque dei medesimi avesse osato di vendere vino, anche al minuto, nella propria bottega, o presa taverna in affitto, non solo perdeva il vino, e pagava 40 ducati di multa, ma bandivasi eziandio da Venezia, e dal «Dogado» per un anno. Se gl'impiegati tenevano furatola, perdevano il loro posto; i preti poi, se la tenevano in casa, divenivano incapaci d'ogni ecclesiastico beneficio, e se fuori di casa, incorrevano in pena pecuniaria, non pagando la quale, potevano essere incarcerati (Legge 7 aprile 1502 nel Capitolare dei VII Savii). Furlane (Campo, Calle delle) a Castello. Crede il Berlan che abbiano dato il nome a queste vie alcune Friulane, taverniere, lavandaie, od acquajuole, le quali poterono aver dimora, o faccenda nelle case propinque; oppure che in questo campo spazioso, e non selciato si costumasse di ballare la «furlana». Propendiamo per la seconda opinione, poiché tuttora, in occasione di «sagre», od altre festività, sogliono le donnette domiciliate in questo Campo uscire a ballare in mezzo del medesimo. Il Grevembroch disegnò nella sua raccolta: «Gli abiti dei Veneziani di quasi ogni età ecc.» il ballo della Furlana, e vi è aggiunta la seguente illustrazione: «Non v'era danza più gradita quanto quella tradotta dal Friuli, che si chiamava la Furlana, nella quale le donne erano sì svelte ed agili che l'uomo, quantunque robusto, e giovane, appena poteva secondarle. Le giornate festive, per essere disoccupate dal lavoro, a meraviglia accomodavano alle femmine popolari, che in luoghi poco distanti dalle loro case, e senza strumenti musicali, ma solo dal maneggio d'alcuni cembali prendevano lena, stimandosi le più scelte quelle del Sestiere di Castello, forse per possedere più arte di stancare il compagno». Furlani (Calle, Fondamenta dei) a Sant'Antonino. Che qui abitassero Friulani, è provato da un decreto del Consiglio dei X, 25 settembre 1454, ove si ordina che «omnes fachini, bastasii, et omnes furlani, qui morantur in calli furlanorum», debbano darsi in nota presso i Capi dei Sestieri per accorrere, in caso di bisogno, ad ammorzare gli incendii. Arrogi che nel 1514 fra le varie case che Marco Dandolo possedeva in parrocchia di S. Antonino, in Ruga di Furlani, ve n'era una appigionata ad «Amadio furlan», un'altra a «Pietro furlan», una terza a «Isabeta relita Piero Cavallo Furlan», ed una quarta ad «Andrea Furlan». Ricorda la «Guida» del Coronelli (edizione del 1700) che essi avevano scuola di divozione in chiesa di San Basso sotto il patrocinio di San Pio I. Questa scuola, che riconosceva per protettori anche i SS. Ermagora e Fortunato, ebbe origine in San Basso il giorno 8 febbraio 1643 M. V., ma verso la metà del secolo seguente trasportossi nella chiesa di San Giovanni del Tempio, volgarmente «S. Giovanni dei Furlani», ove costrusse la propria tomba coll'iscrizione: Arca della Scola di S. Pio mdccxlvii. Un avvocato, per nome Michele Crisafida, il quale abitava in questa calle, si lasciò rinchiudere nel secolo decimosettimo, nottetempo, in chiesa della Celestia per usare carnalmente con due monache sorelle. Scoperto il fatto, le monache furono punite, e l'avvocato bandito. Una «Corte dei Furlani» abbiamo pure a San Barnaba, nella qual parrocchia troviamo decessa il 30 maggio 1587 una «Felicita consorte de s. Lunardo Furlan», e domiciliato nel 1713 un «Domenego Furlan». Ignoriamo poi se costoro fossero Friulani di patria, oppure appartenessero ad una famiglia così cognominata. Fuseri (Ramo, Ponte, Rio, Calle dei) a S. Luca. Vi stanziavano i fabbricatori di fusi. Alcuni «fuseri» da S. Luca trovansi registrati anticamente come confratelli delle Scuole Grandi. Anche i Necrologi del Magistrato alla Sanità fanno memoria d'un «Bernardo fuser» da S. Luca, morto il 17 ottobre 1613. Leggesi nelle «Raspe» che, avendo un Antonio Filacanevo, d'accordo con Orsa Cantarella, condotto una figlia di costei, d'anni 8 circa, alla casa di certo Fiore da Bologna ad «Pontem Fusariorum», colà le tolse il fiore verginale, «non tamen explete», e perciò con sentenza 4 novembre 1440, venne condannato ad essere frustato da S. Marco a Rialto, a stare sei mesi in prigione, ed a pagare 100 lire di multa a favore della danneggiata. Questo ponte viene ricordato eziandio nella sentenza 13 giugno 1441 contro Datalo ebreo, scoperto adultero d'una Giacometta, donna cristiana. Vedi Schiavine (Calle delle). Una parte del Consiglio dei X, 26 aprile 1585, contro le aggressioni ed assassinamenti che frequentemente succedevano allora in Venezia, ci fa sapere che la sera del Giovedì Santo di quell'anno venne in «Calle dei Fuseri» assalito e derubato il «cap. Antonio Fortuna», e che poche ore dopo, nella calle medesima, toccò egual sorte a «Piero de Stefano Carmin Grison, hosto al Salvadego». Al «Ponte dei Fuseri» abitava Ercole Bentivoglio, nipote di Giovanni II Signore di Bologna e distinto poeta volgare. Ciò si apprende dal Capitolo diretto ad una «Signora Agnola» di lui innamorata. Pella contrada ove morì vedi S. Geremia (Parrocchia ecc.). |
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