Raspi o Sansoni (Ponte) a S. Cassiano. Giace frammezzo al palazzo Raspi, di cui nell'articolo antecedente, ed alle case che erano possedute dalla cittadinesca famiglia Sansoni. Vedi Sansoni (Calle, Campiello dei). Regina (Calle, Ramo Calle della) a San Cassiano. Qui nacque nel 1454 la celebre Catterina Cornaro, che impalmata da Jacopo di Lusignano divenne regina di Cipro. E' noto come, rimasta vedova, cedesse nel 1489 il regno alla Repubblica, riportandone in cambio (meschino cambio invero!) il Castello d'Asolo sui colli trivigiani. Colà circondossi d'una piccola corte, primo ornamento della quale era l'eruditissimo Pietro Bembo. Senonché, al tempo della lega di Cambrai, per isfuggire i pericoli della guerra, ritirossi a Venezia nella magione de' suoi padri, ove morì nel 1510, in età di 56 anni. Fu sepolta nella chiesa dei SS. Apostoli, donde nel 1663 venne traslocata in quella di San Salvatore, essendosele eretto apposito monumento, lavoro di Bernardo Contin. In palazzo Corner Della Regina si fecero varie feste, fra cui una il 13 febbraio 1499 M. V. per le nozze d'una damigella della Corner con un Rambaldo Avogaro da Treviso: una seconda nel 3 settembre 1505 per le nozze d'una nipote della Corner con Carlo Malatesta, fratello di Pandolfo già signore di Pesaro, una terza finalmente il 10 febbraio 1508 M. V. per le nozze d'un'altra nipote della Corner con un conte Brandolin di Valmarino. Più non esiste però l'antico palazzo in cui nacque, e morì Catterina. Quello che ora si scorge fabbricossi sull'area dell'antico l'anno 1724, per opera dell'architetto Domenico Rossi. Esso fu donato da Catterino Corner, ultimo rampollo di questo ramo, al pontefice Pio VII, che lo cesse dipoi ai pp. Cavanis, fondatori delle Scuole di Carità. Da essi lo acquistò il Municipio per istabilirvi il Monte di Pietà. Quanto alla famiglia Cornaro, o Corner, vedi Corner (Calle). Regina (Sottoportico e Corte della) a San Bartolammeo. E' probabile che qualche bottega, avente l'ingresso posteriore in questa Corte e respiciente col prospetto la via che mette al «Ponte di Rialto», portasse anticamente l'insegna della «Regina». Un «bombasèr alla Regina» stanziava in parrocchia di S. Bartolammeo nel secolo trascorso. Regina d'Ungheria (Campiello della). Renier (Calle) a S. Pantaleone. Da Ragusi la famiglia Reniero, o Renier, venne a Venezia l'anno 1092. Assunta da bel principio al Consiglio, ne rimase esclusa nel 1297, e solo nel 1381 vi fu riammessa dopoché Nicolò Renier, «patron de nave», pagò soldati, e fece altre offerte alla Repubblica nella guerra contro i Genovesi. Egli era da S. Pantalone, il che può far sospettare che fino da quell'epoca la di lui famiglia abitasse nella calle da noi illustrata, ove per certo avea stanza nel 1661, nel qual anno troviamo segnata in quella situazione la «casa propria et habitata dal N. U. Alvise Renier». Senza contare gli uomini illustri che anche questa famiglia in tempi antichi diede alla patria, ricorderemo Paolo Renier, penultimo doge di Venezia, uomo facondo ed erudito, sotto il quale Angelo Emo fece per l'ultima volta risuonare i mari del nome veneziano. Nipote del doge Paolo fu Giustina Michiel, una delle più illustri donne che possano vantare i tempi moderni. Il ramo della famiglia Renier di S. Pantaleone, che pure è detto dal «Ponte di ca' Foscari» perché la facciata del suo palazzo, ora distrutto, corrispondeva a tal ponte, si estinse nel 1831 in Bernardino q. Alvise, che, eletto nel 1797 Deputato all'interna custodia della città, seppe, nella notte dal 12 al 13 maggio, con l'arresto di alcuni tumultuanti, e collo sparo di tre pezzi d'artiglieria dal Ponte di Rialto, fermare il saccheggio, che minacciava di estendersi a tutta la nostra città. Renier (Calle) o del Pistor a S. Margherita. Nella Calle «di Ca' Renier» a S. Margherita la Descrizione della contrada pell'anno 1740 pone il «palazzo proprio per uso del N. U. Daniel Renier». Egli apparteneva ad un altro ramo della famiglia rammentata nell'articolo precedente. Il palazzo, ora ridotto a semplice casamento, non conserva di antico che una bella porta archiacuta. Per la seconda denominazione vedi Pistor (Calle e Ponte del). Rialto Nuovo (Campo di). Il tratto, che chiamasi «Rialto Nuovo», giace a tergo della chiesa di S. Giovanni Elemosinario, e trasse il nome dall'essere stato arricchito di fabbriche più tardi dell'altro tratto vicino alla chiesa di S. Giacomo. Narra il Sansovino che il terreno, poscia chiamato «Rialto Nuovo», era anticamente di proprietà della famiglia Aurio, e che Tito e Pietro di questa famiglia ne fecero dono alla Repubblica l'anno 1097. Riccardo Selvatico (Campiello). Rio Marin (Fondamenta) a S. Simeone Profeta. E' una delle due fondamente, o rive, che costeggiano il «Rio Marin», e da esso prende il nome. Vedi Marin (Rio). Sopra la «Fondamenta Rio Marin», e precisamente in una casa del procuratore di S. Marco Contarini, appigionata ad un Colombo, tenevano sullo scorcio del secolo passato i «Liberi Muratori» le loro occulte congreghe. La loggia venne scoperta il 6 maggio 1785, e corrono due versioni sul modo dello scoprimento, riportandone una il Mutinelli («Memorie degli ultimi cinquanta anni della Repubblica Veneta») ed un'altra il Dandolo («La caduta della Repubblica Veneta, ed i suoi ultimi cinquanta anni»). Rio Marin (Fondamenta) o dei Garzotti a S. Simeone Profeta. E' la fondamenta posta di faccia a quella di cui si fa cenno nell'articolo antecedente. Il secondo nome le proviene da certi lavoranti i quali garzavano i panni, cioè loro sollevavano il pelo con quella specie di pannocchia, o testa spinosa, detta «garzo» («cardo»). Anticamente essi trovavansi uniti ai «Cimadori», avendo scuola sopra questa fondamenta, dedicata a S. Nicolò, ma poscia si separarono, erigendo scuola a parte sotto il patrocinio dell'Annunziazione nella prossima chiesa di S. Simeon Grande. Vedi la «Cronica» del Pacifico (edizione del 1697) e la «Guida» del Coronelli (edizione del 1700). Nella chiesa suddetta essi costrussero un altare con pala di Palma il Giovane, rappresentante nostra Donna Annunziata e la Trinità, e colla iscrizione: Altar Della Scuola Et Arte Degli Garzoti MDCXI. Dirimpetto pure costrussero due arche marmoree coll'anno MDCXIII, e coll'immagine del «garzo». I «Garzoti», cogli «Argagnoti» (accotonatori di panni), ascendevano verso la fine del secolo scorso al numero di novanta, e concorrevano al pagamento delle gravezze unitamente ai mercanti di lana, sebbene questi in loro confronto potessero servirsi pei lavori d'altre persone col solo contribuire una tassa d'annui ducati 92 a beneficio dei danneggiati. L'arte di cui parliamo venne soppressa nel 1787. «Dei Garzoti» chiamasi anche un prossimo ponte, altrimenti chiamato «Cappello» da un palazzo di questa famiglia, che in origine apparteneva ai Bragadin, e poscia ai Soranzo. Vedi Cappello (Ponte) o dei Garzoti. Che poi in questi contorni fiorisse l'arte della lana, lo provano le varie denominazioni stradali attinenti all'arte suddetta. Vedi Lana (Campo della), Gradisca (Campo ecc.) e Tedeschi (Campo dei). Rio Terrà. Specialmente in questi ultimi tempi (e forse con troppa frequenza) s'interrarono molti rivi, e le strade che ne risultarono presero il nome di «Rio Terrà». Riva. Vedi Fondamenta. Riva (Sottoportico e Corte) a San Marco, in «Procuratia». Nella «Temi Veneta» pell'anno 1796 tu vedi un ramo della patrizia famiglia Riva, o Da Riva, domiciliato nelle «Procuratie Vecchie», nell'antica parrocchia di S. Geminiano. Un Giovanni Da Riva, uscito da questa famiglia, trasmigrata da Belluno a Jesolo, e quindi a Venezia nei primi tempi, riscontrasi fra quei nobili che nel 1122 sottoscrissero al privilegio concesso dal doge Domenico Michiel alla città e contrada di Bari. Un Raffaele Da Riva, frate domenicano, fu vescovo di Curzola, e quindi nel 1610 di Chioggia. Un Giacomo Da Riva, capitano delle navi nella guerra di Candia, dopo essersi posto ai Dardanelli per impedire l'uscita da quello stretto all'armata ottomana, attaccolla nel porto di Fochies, riportandone segnalata vittoria. Egli aveva concepito l'ardito progetto di penetrare con una flotta nel Bosforo e bombardare la stessa Costantinopoli, al che non accondiscese il Senato onde non esporre a tanto rischio la preziosa vita de' suoi figli. Anche Carlo e Faustino Da Riva, nipoti del citato Giacomo, brillarono nella guerra contro i Turchi. Rizzo (Calle, Ramo Calle) a S. Cassiano. Dalla cittadinesca famiglia Rizzo, che si chiamava anche Bonrizzo, vantando per capostipite uno dei Bon, soprannominato «riccio» per la lunga ed inanellata sua chioma. Una parte della suddetta famiglia rimase del Consiglio nel 1297 e si estinse in un Maffeo nel 1334. Un'altra, che è quella di cui favelliamo, esclusa dal Consiglio e passata fra i cittadini originarii, produsse un Angelico, canonico regolare di San Salvatore e dotto teologo, il quale morì nel 1588, nonché un Alessandro, celebre pei suoi studi alchimistici, decesso nel 1615. I Bonrizzo cittadini abitavano, come riferisce il Codice 27, Classe VII della Marciana, «a San Cassan in casa propria». In prossimità vi è anche la «Calle dietro Carampane o Rizzo». Vedi Carampane (Calle ecc. delle). Rizzo (Calle) a S. Girolamo. «Laura Rizzo fo de m. Zuane» notificò nel 1514 «case 5 in la contrà de S. Marchuola, per mezzo» (di faccia) «la giexia de S. Hieronimo» in virtù della donazione di «D. Isabetta» sua sorella, che le aveva acquistate «pel testamento di M. Andrea Donado da la tela, suo barba». Questa «Laura Rizzo r.ta Antonio» anche nel 1537 notificò coi figliuoli case a S. Girolamo, una delle quali appigionata a «Z. Batta Rizzo avvocato». Essa possedeva altre case a S. Barnaba, un palazzo a San Tomà, ove abitava «m. Marco Zantani», e beni sotto Zero nella Trivigiana. La famiglia Rizzo, di cui qui si tratta, era quella che portava nello stemma il riccio, o porco spino, colle rose sottoposte, che aveva tomba in chiesa dei Frari, e che produsse quel Zaccaria, nato, secondo i registri dell'«Avogaria», nelle «sue case a San Gerolamo, contrada de S. Marcuola», ed approvato cittadino originario il 19 settembre 1608. In «Ca' Rizzo» a S. Girolamo, ove abitava il duca Annibale Moles, ritrovaronsi incenerite, il primo febbraio 1731 M. V., Elena Scorle, governante del duca, e Laura, moglie di Pietro Mattiuzzi, venuta di notte a tenerle compagnia in assenza del padrone. Rosa (Calle larga) a S. Nicolò. Un «Lodovico Rosa» notificò nel 1740 di possedere «alcuni beni dotati di ragione della madre Catterina Formenti in Arzere a San Nicolò, e Santa Marta». Rosa (Ramo, Ramo Calle della) a S. Cassiano. Anche queste strade, secondo il Gallicciolli, ricordano una famiglia Rosa. Noi, scorrendo alcuni antichi documenti nell'Archivio Notarile, abbiamo ritrovato una carta di ricevuta che un «Nicolaus de Ruosa a daghis de confinio S. Cassiani» fece il 5 novembre 1388, in atti d'Andriolo Cristian, ad un ser Giovanni Maurica di Candia, per la parte che gli spettava nella vendita di 96 daghe, ed 80 coltelli. Nicolò apparteneva a quella famiglia Rosa, o Ruosa, cittadinesca, che produsse un Giovanni secretario di molto valore, ed altri soggetti onorevoli nei maneggi pubblici e privati. Il Ziliolo incomincia l'albero di questa famiglia appunto da questo Nicolò, venuto a Venezia da Chioggia nel 1380. In «Calle della Rosa», a S. Cassiano, abitava quella Catterina Fabris, o Degli Oddi, celebre per iscostumatezza e fattucchierie, la quale nel 1749 ebbe un processo per parte degli «Esecutori contro la Bestemmia», rammentato dal Mutinelli nelle sue «Memorie storiche degli ultimi cinquanta anni della Repubblica Veneta», nonché da M. Armand Baschet: «Les Archives de la Sérénissime République de Venise». Rosa (Ramo ecc.) a Castello. Vedi Rosina. Rota (Corte) ora Campana presso la «Calle del Rimedio». Lesse il Cicogna sopra la casa qui posta al N. A. 4702 la seguente iscrizione: Restaurate da D. Bortolo Rota 1680. Un Bartolammeo Rota, che nei traslati di beni è detto «fattor», possedeva infatti in questa epoca quattro case in «Calle del Rimedio», in parrocchia di S. M. Formosa. La «Corte Rota» è detta anche «Campana» perché gli stabili in essa situati sono oggidì posseduti dalla nobile famiglia Campana, originaria dal comune di Campana nella Corsica. Fu di questa famiglia quell'Andrea Campana, morto il 6 gennaio 1855, la cui abilità nella medicina, e specialmente nel trattare il ferro chirurgico, venne ben conosciuta ed apprezzata dai Veneziani. Ed il figlio di lui Bartolomeo, senatore del regno d'Italia, qui pure morì nel 1887. Rota (Calle). Vedi Rotta. Rotta (Calle, Ramo Calle) alla Carità. Leggasi «Rota», cognome di patrizia famiglia, che in questa calle aveva il suo palazzo respiciente colla semplicissima facciata il «Canal Grande». Esso, sotto il nome di palazzo Rota, trovasi inciso nella raccolta del Coronelli, e viene pur anche nominato da Nicandro Jasseo nel suo poema: «Venetae Urbis Descriptio». Sul pozzo della corte interna ha scolpita tuttora l'arma dei Rota. Poscia passò in mano dei Brandolin pel matrimonio, avvenuto nel 1750, fra Maria figlia di Francesco Rota, e Girolamo Brandolin. Vuolsi che la famiglia Rota abbia avuto l'origine in Milano donde trasmigrò a Bergamo. Per molte benemerenze ottenne dai prìncipi onorevoli privilegi e, venuta a Venezia, fu ammessa nel 1685 al M. C. nelle persone dei fratelli Francesco e Gregorio con discendenti. Francesco Rota aveva prima esercitato in Venezia con molto onore l'avvocatura, ed un suo figlio, di nome Valerio, fu vescovo di Belluno. Rotta (Calle Corte, Corte) a S. Severo. Per queste, ed altre strade del medesimo nome, vedi Rotto (Campazzo). In questa corte, parte della quale era sottoposta alla parrocchia di S. Giovanni Nuovo e parte a quella di S. Severo, abitava e possedeva case nel 1661 l'architetto Baldassare Longhena q. Melchisedech. Egli qui fece testamento il 15 maggio 1681 in atti Domenico Garzoni Paolini, e vi morì il 18 febbraio 1681 M. V. come dalla seguente annotazione mortuaria: «18 febbraio 1681. Il Sig. Baldassare Longhena Protto d'anni 85 da febre e catarro mesi 8; m.co Marcobruni: farà sep.r il S.r Baldassare Garlotti con cap.o - S. Zuane novo». Ruga Bella. Vedi Bella. Ruga Giuffa (Fondamenta dietro, Ponte di) a S. Maria Formosa. Il Gallicciolli lasciò scritto essere «Giuffa» corruzione di «Ziulfa», avendo qui abitato i mercatanti armeni, venuti da Julfa, sobborgo d'Hispahan, donde vennero scacciati da Schach-Abas re di Persia. Considerando altri che la strada di cui parliamo si trova sempre nommata nelle antiche carte non «Ruga Giuffa», ma «Ruga Gagiuffa», e che con ciò perde del suo valore l'etimologia proposta dal Gallicciolli, dissero dipendere il nome da una fiera pestilenza qui sviluppatasi chiamata gagiuffa. Noi però, avendo sott'occhio un documento del 1283, estratto dal Capitolare dei «Signori di Notte» contro «gagiuffos», fossero essi maschi o femmine, che andavano per Venezia «decipiendo gentes, fingendo se esse divinos, vel herbarios, et accipiendo helemosinas hospitalibus, monasteriis, et aliis pauperibus et bonis personis cum calicibus, anchonis, pueris parvis, et aliis deceptionibus, simulando se esse hospitalarios, et bonas personas, et debiles» ecc., pensiamo in quella vece che la «Ruga Gagiuffa», ora «Giuffa» a S. Maria Formosa, insieme alla «Ruga Giuffa S. Apollonia», che stendesi dal «Ponte di Canonica» al «Campo dei SS. Filippo e Giacomo», siensi così denominate perché fossero sede in antico di tali impostori. Ci avvisa il ch. dott. T. Elze, che il vocabolo «gajufus» deriva dal dalmato «gejupka», significante in questa lingua «zingano», sotto il qual titolo fu più volte nel secolo XVII pubblicata una epopea dalmata in Venezia. Di qua probabilmente nacque anche il nostro vocabolo italiano «gaglioffo». Celio Malaspini in una delle sue «Novelle» parla del «ponte di S. Maria Formosa che passa in ruga gaglioffa». Rùsolo o Canova (Campo) a S. Gallo. Vuolsi che «Rusolo» sia corruzione di «Orseolo» pegli stabili che fino da tempi antichissimi qui aveva la famiglia Orseolo. Ed invero dicono gli scrittori che anche oltre la valle Grassabò una striscia di terra denominossi «Argine» o «Campo Rusolo», per le possessioni di questa famiglia. Errano poi molti nel sostenere che il campo di cui parliamo ebbe il nome di «Rusolo» soltanto dopoché nel 1581 vi si trasportò l'ospitale fondato dal santo doge Pietro Orseolo I presso il campanile di S. Marco, poiché anche in antecedenza veniva così appellato, come consta dalla convenzione fatta il 10 ottobre 1581 dai Procuratori «de Supra» col priore dell'ospitale pel trasporto del medesimo. Vedi Todeschini: «Della dignità dei Procuratori di S. Marco» ecc. (Classe VII, Cod. 612 della Marciana, Cap. VII, Doc. 67). Il Sanudo inoltre ne' suoi «Diari» nota che il 25 gennaio 1512 M. V. si fece una «caza di tori in Campo Rusolo». La famiglia Orseolo venne dall'Alemagna a Torcello, e quindi a Venezia nei primi tempi. Fra i tre dogi che produsse, tiene il primato per santità Pietro Orseolo I, eletto nel 976 dopo l'uccisione di Pietro Candiano IV. Egli riedificò a sue spese il tempio dell'Evangelista col palagio ducale, e fondò in Rialto numerosi alberghi pei poveri pellegrini, ai quali del suo somministrava il vitto. Faceva sperare a tutti un ottimo governo, quando, annoiato dall'intestine discordie e dalle grandezze mondane, fuggì nel 978 celatamente da Venezia con Guerino, abate di S. Michele di Cussano nella Guascogna. Drizzatosi verso quel monastero ed arrivatovi, in breve vestì la cocolla, e dopo parecchi anni spesi nella pratica della virtù passò ad altra vita. Canonizzato nel 1731, si portarono tosto dopo alcune di lui reliquie a Venezia, dono di Luigi XV re di Francia, le quali in argentea cassetta sono riposte nel Tesoro di S. Marco. La famiglia Orseolo mancò fra noi nel 1032 in un Domenico, che, avendosi voluto intrudere nel principato, dovette, non appena trascorsi tre giorni, prendere co' suoi parenti la via dell'esilio. Il «Campo Rusolo» è detto anche «Canova», essendo morto in una casa qui situata Antonio Canova, come appare da lapide affissa alla muraglia. La casa suddetta apparteneva al caffettiere Francesconi, soprannominato Florian, e spesso Canova, venendo nella nostra città, andava ad abitarvi, legato com'era in amicizia, fin da giovanetto, col padrone della medesima. Anche sul declinare dell'anno 1822, quando il sommo scultore cadde ammalato in Possagno, e si fece trasportare a Venezia, elesse di albergare presso la famiglia del Florian, già defunto, ma, aggravatosi il male che lo affliggeva, soggiacque anch'egli la notte del 13 ottobre dell'anno medesimo al comune destino. Rabbia (Calle della) a San Leonardo. E' popolar tradizione che questa via traesse il nome dall'avervi infierito più rabbiosamente che in altre vie della contrada la peste una delle varie fiate ch'essa venne a desolare Venezia. Noi però crediamo piuttosto che qui abitasse, o possedesse stabili, la cittadinesca famiglia Rabbia, della quale troviamo le memorie seguenti. Un Francesco Rabbia, mercadante, aiutò nel 1374 Lucia Tiepolo a fondare in Cannaregio la chiesa ed il monastero del Corpus Domini. Un Paolo Rabbia, pur esso mercadante, assalito nel 1421 da fiera burrasca nel Quarnero, salvò la nave ove ritrovavasi raccomandandosi alla reliquia della SS. Croce, che veneravasi nella Scuola di S. Giovanni Evangelista. Così racconta il libro più volte ristampato col titolo: «Miracoli della Croce Santissima della Scuola di S. Giovanni Evangelista». Marin Sanudo finalmente riferisce che il 18 febbraio 1508 M. V. «si fece festa etiam in Cannaregio per le nozze del fio di Fazio Tomasini in una Rabbia». Racchetta (Calle, Sottoportico, Rio della) a Santa Catterina. La Descrizione della contrada di S. Felice pel 1661 pone in questa calle, chiamata allora «Calle Longa tra S. Felice e S. Caterina», il giuoco «di Racchetta, tenuto da Zuane Spinola». Ed un manoscritto della Marciana ricorda che il ceto civile radunavasi per giocare alla racchetta in «Calle dei Botteri» a S. Cassiano, oppure in «Birri», ed il basso popolo nella «calle lunga tra S. Felice e Santa Catterina». La racchetta, o lacchetta, è uno strumento col quale si gettano in alto le palle. In questo giuoco si esercitavano specialmente le «Compagnie della Calza», che erano alcune società di gentiluomini, od altre persone ben nate, sorte nel secolo XV, allo scopo di divertirsi, massime in tempo di carnovale, e così dette dal costume d'indossare calzoni (anticamente pur «calze» appellati) con una gamba, differentemente dall'altra, divisata a più colori, e coll'impresa della compagnia, ricamata talora in oro, perle e pietre preziose. Raffineria (Corte e Calle della) a San Cassiano. Ricorda il Gallicciolli che qui esisteva un laboratorio per raffinare lo zucchero. Nel 1713 esso era condotto da un Francesco Astori. Il primo a fondare raffinerie di zucchero in Venezia fu un Rodrigo di Marchiano portoghese nel 1598. Quest'arte formava un colonnello di quella degli «Spezieri da Grosso», ed era come singolare e propria dei Veneziani. Essa decadde in Venezia quando incominciò ad introdursi in Ancona, Trieste ed altre città. Però nel 1773 aveva ancora fra noi sette officine. Ragusei (Calle, Calle e Ponte, Ponte dei) ai Carmini. Riferisce il Cod. 351, Classe VII della Marciana, che la famiglia Raguseo venne da Ragusi, e che «stava ai Carmini nella calle detta dei Ragusei. Di questa è stato m. Giorgio famoso d.r e let.r in Padova». Osserviamo però che fino dal 1319 un «Marin Raguseo marcer», confratello della scuola di S. Maria della Misericordia, era domiciliato in contrada dell'Angelo Raffaele, a cui la «Calle» ed il «Ponte dei Ragusei» erano soggetti. Ramo. «Son detti rami», dice il Berlan, «quelle viuzze che si staccano da una via maggiore, e spandonsi appunto come rami dall'albero». Questa denominazione trovasi spessissimo unita ad altre, come «Ramo Calle», «Ramo Corte», «Ramo Fondamenta», ecc. Raspi (Calle, Ramo) a San Cassiano. Da Mantova la famiglia Raspi si trapiantò a Bergamo nel 1209 ove ottenne quella nobiltà. Venuta nel 1360 a Venezia, si diede ad esercitare la mercatura, accumulando non poche ricchezze. Il manoscritto marciano intitolato: «Cronaca di 46 famiglie di Cittadini Veneziani» (Classe VII, Codice 341), dopo aver fatto parola di Pasqualino Raspi, soggiunge: «Dell'anno poi 1622, 7 Marzo, si vede al Collegio dei X Savii il detto Pasqualino traslatar dal nome di Z. Antonio Bettinelli la casa grande de stazio, situata nella contrada di S. Cassano, sopra il ponte detto dei Sansoni, per acquisto 10 Decembre 1620, atti Girolamo Brinis N. V. qual servì poscia, e tuttora serve per abitazione di questa discendenza di ca' Raspi». Giunto l'anno 1662, Giammaria Raspi, figliuolo di Pasqualino, mediante il solito esborso di 100 mila ducati, venne ammesso al Maggior Consiglio. Raspina (Calle) all'Angelo Raffaele, in «Fossa Capara». Leggasi, come negli Estimi, «Ruspina». Un «Bernardo Ruspini» il 30 luglio 1614 traslatò in ditta propria da quella di «Marchiò e sorelle di Cortesi casette n. sette, poste in contrà del Anzolo Raffael, in Fossa Capara, in lui pervenute in virtù de comp.da fatta nelli atti de Anz.lo di Schietti Nod.o Ve.to sotto dì 13 Apl. 1611». Fabbricò poscia nella stessa situazione, sopra un «pezzo di terren vacuo», altre quattro case, che notificò ai X Savi il 1° giugno 1615. Egli probabilmente apparteneva a quella famiglia Ruspini, la quale, venuta da Bergamo, godeva la cittadinanza originaria, ed aveva tombe nelle chiese di Santa Maria Gloriosa dei Frari e di Sant'Alvise. Rasse (Calle delle) a San Provolo. La rascia, o rassa, è un panno di lana ordinaria col quale si coprono le gondole, così chiamato dal regno di Rascia (oggidì Servia) donde provenne. Che qui se ne facesse spaccio fino agli ultimi anni della Repubblica, lo prova un manifesto stampato sullo scorcio del secolo decorso, con cui Giovanni Barich, capo maestro dei tintori della Serenissima Dominante, avvisava che chi volesse vedere i campioni delle «rasse» servienti ad uso dei «felzi» da barca, ed uscite dalla sua tintoria, si recasse in «Calle delle Rasse» all'insegna di San Girolamo, ed all'insegna di Sant'Antonio di Padova. Il Sabellico («De Situ Urbis») chiama fino dai suoi tempi questa via «Rascianum vicum». Sulla «Riva dei Schiavoni», e precisamente di faccia la «Calle delle Rasse», venne trucidato nel 1172 il doge Vitale Michieli II mentre recavasi, secondo il costume, il giorno di Pasqua alla chiesa di S. Zaccaria. L'assassino, che fu certo Marco Cassolo, espiò sulle forche il proprio delitto, ed avendosi egli nascosto, prima di commetterlo, in alcune case poste in capo alla «Calle delle Rasse», ove, secondo alcuni scrittori, abitava, «fo ruinà» (dice la cronaca Magno) «quelle caxe, et costituido mai non le se possi far de piera, et cussì sono, et fassi de legno, et che lo doxe se farà, no vadi più per quella via, ma per S. Filippo e Jacomo, et fo fatto far quelli do ponti de piera, et cussì se oserva». I due Ponti accennati sono quello di «Canonica», e quello di «S. Provolo». Scrive ne' suoi «Annali» il Malipiero: «El mese de Mazo» (1498) «se ha descoverto la peste in alguni luoghi della terra, e i proveditori della Sanità ha prohibido la Sensa, ma i Schiavoni no l'ha saputo, e son venuti con le sue rasse, e i Lombardi con le sue tele. E intesa tal prohibitione, i son andati a la signoria, e alegando i so gravami, ha suplicà de poder vender per la terra, e son sta esaudidi, ma ghe è devedà de vender in calle delle rasse per non far assunanza, e se ha reduto verso Santa Maria Formosa, sulla salizà de S. Lio». Dalla «Calle delle Rasse» verso il palazzo ducale, come pure nell'osterie, che un tempo esistevano nella «Piazza», non potevano, per legge del Consiglio dei X, abitare meretrici: «Meretrices non habitent a calle rassiae citra versus Palat. neque in hospitiis Plateae»: Vedi Decreta Concili Decemvirum (Codice 84, Classe V dei Latini, presso la Biblioteca Marciana). In «Calle delle Rasse», in una casa di Francesco Orio, fioriva la stamperia ducale del Rampazzetto, che, per avere falsificato un mandato di Collegio col nome del cassiere, e secretario del Collegio medesimo, fu il 4 agosto 1616 condannato ad un'ora di berlina, e poscia a tre anni di galera continui, come remigante, coi ferri ai piedi. In caso d'inabilità, la pena della galera doveva essere permutata in quattro anni di reclusione nella «Prigion Forte». Egli venne esposto in berlina il dì 9 agosto dell'anno citato. Sante Gariboldi, speziale all'insegna di S. Domenico in «Calle delle Rasse», venne decapitato ed abbruciato il 30 luglio 1641 per avere abusato di due fanciulli di anni sei. Alcuni Registri dei Giustiziati dicono che l'esecuzione ebbe luogo in «Calle delle Rasse», dove «il reo aveva fatto il delitto», ma gli autentici registri criminali insegnano invece che il delitto venne commesso nel convento di S. Giobbe, e che il Gariboldi patì il supplizio fra le colonne della «Piazzetta». In Capo alla «Calle delle Rasse», con prospetto sopra la «Riva degli Schiavoni», scorgesi un magnifico palazzo archiacuto, fondato nel secolo XIV dai Dandolo, e celebre, secondo il Sanudo, per le molte feste che vi si celebrarono, e pei molti nobili personaggi che v'ebbero ospizio. La proprietà di questo palazzo andò a poco a poco divisa. Imperciocché porzione di esso venne assegnata in dote alle donzelle dei Dandolo, che s'accasarono in altre famiglie, e porzione ne fu comperata nel 1536 dai Gritti. Subentrarono quindi i Mocenigo ed i Bernardo, i primi dei quali, per festeggiare le nozze, avvenute nel 1629, fra Giustiniana Mocenigo e Lorenzo Giustinian, fecero eseguire in musica nell'appartamento ad essi spettante la «Proserpina Rapita» di Giulio Strozzi, uno dei primi drammi musicali eseguiti in Venezia. Nello stesso palazzo si aperse nel 1822 un nobile albergo da Giuseppe dal Niel, detto Danieli, il quale, con istrumento 25 febbraio 1824, in atti Agostino Angeri, comperò il secondo piano da Elena Michiel, vedova di Alvise Bernardo, mentre più tardi Alfonsina Clement, figlia adottiva del Danieli, unitamente al marito Vespasiano Muzzarelli, comperò il primo piano, con istrumento 24 settembre 1840, in atti Paolo Cominciolli, da Filippo e Mario Nani eredi Mocenigo. L'albergo fiorisce tuttora. Ràvano (Ponte, Calle del) a Sant'Eustacchio. Erra il Gallicciolli nell'affermare che non ebbe esistenza in Venezia alcuna famiglia Ravano. Abbiamo avuto in quella vece più di una famiglia di questo cognome, fra cui quella notissima che coltivò l'arte tipografica nel secolo XVI, e che noi crediamo appunto aver dato il nome all'indicate località. Troviamo un Pietro Ravano, bresciano, stampatore nel 1516; un Vettor Ravano q. Pietro stampatore, all'insegna della Sirena, nel 1531, nonché gli eredi di Pietro Ravano nel 1546. Una «Rughetta del Ravano» vi è pure a Rialto, presso S. Silvestro. Un «Gasparo Ravano, sartor» in Rialto, presentò la notifica dei propri beni nel 1537. Redentore (Campo del) alla Giudecca. Fiorenza Corner, moglie di Pietro Trevisan, e Teodosia Scripiana edificarono alla Giudecca una chiesa dedicata a Santa Maria degli Angeli, ed un prossimo convento, che nel 1541 consegnarono a fra' Bonaventura degli Emmanueli, minor osservante. Questi nell'anno medesimo v'accolse i Cappuccini, dei quali vestì l'abito, ma dopoché Bernardino Ochino, loro generale, cadde nell'apostasia, riassunse l'abito degli Osservanti, e discacciò i nuovi venuti. Essi nel 1546 fondarono un piccolo convento di tavole in un altro punto della Giudecca, che era chiamato «Monte dei Corni», perché colà si depositavano tutte le corna de' buoi, ed altri animali ammazzati in Venezia. Solo nel 1548, atterrato da un turbine il povero ospizio, e morto fra' Bonaventura, ritornarono a S. Maria degli Angeli. Essendo poi stata colpita la nostra città negli anni 1575-1576 da fiera pestilenza, la Repubblica fece voto d'innalzare suntuosa basilica al Redentore qualora cessasse il flagello, ed innalzolla infatti presso l'anzidetta chiesa di S. Maria degli Angeli, dopo aver impetrato la grazia, l'anno 1577. Il sacro edificio, disegnato dal Palladio, ebbe consecrazione nel 1592, e poscia venne concesso ai Cappuccini, dei quali ampliossi il convento. All'aprirsi del presente secolo, i Cappuccini restarono soppressi, ma nel 1822 furono riammessi in Venezia, e nella loro sede ristabiliti. Era prescritto sotto la Repubblica che nel giorno del SS. Redentore il tempio a lui sacro fosse visitato dal doge, e dalla Signoria. Tuttora, ricorrendo tal giorno, si unisce Venezia alla Giudecca con un ponte di barche, e si celebra la vigilia della festività con illuminazioni, cene, ed altre allegrezze. Il ponte di barche suddetto si ruppe nel 1610, e ciò fu causa d'alcune sventure. Redivo (Calle) o delle Locande a S. Luca, presso la «Calle dei Fabbri». Trovasi che un «Pietro Redivo, pistor», abitava nel 1661 a S. Luca, possedendo una casa, ed una pistoria alla Giudecca. In parrocchia di S. Luca abitavano pure nel 1713 Giovanni ed Andrea, figliuoli di Pietro. Che poi l'abitazione di questa famiglia fosse precisamente presso la «Calle dei Fabbri», cioè nella calle perciò detta «Redivo», lo si può conoscere dagli Estimi, e dalla circostanza che, essendo stato il suddetto Giovanni Redivo citato all'uffizio della «Avogaria» nel 1679 per deporre circa la condizione di un Giuseppe e fratelli Monti, postulanti l'approvazione della propria cittadinanza originaria, disse ch'egli domiciliava a San Luca, presso la «Calle dei Fabbri», e che la sua famiglia da 38 anni stava in quel sito. Giovanni Redivo esercitava la professione dell'avvocato, ed Andrea quella del ragionato, nel collegio dei quali era stato ammesso il 28 maggio 1682. Dalla moglie Nicoletta Cappella egli ebbe 5 figliuoli, il primo, il terzo, ed il quarto dei quali corsero anch'essi la carriera del ragionato. Per la seconda denominazione vedi Locande (Ramo delle). Remèr (Sottoportico, Campiello del) a S. Agostino. Queste località trassero il nome da un «remer» (fabbricante di remi). I «Remeri» si unirono in corpo nel 1307, ed avevano due scuole di divozione, l'una, sotto il nome del SS. in chiesa di San Bartolammeo, e l'altra, sotto il nome di S. Bartolammeo, in chiesa di S. Giovanni Elemosinario. Contavano, nel 1773, 19 botteghe, 213 capimastri, e 31 lavoranti. A quest'arte erano uniti i «Remeri» dell'Arsenale i quali, come pubbliche maestranze, non concorrevano «al carato di tansa». Il «Campiello del Remer» a S. Agostino è celebre perché vi sorgeva la casa di Boemondo, o Bajamonte Tiepolo. Avendo costui alcune particolari cagioni di odio contro il doge Pietro Gradenigo, approfittò del disgusto che la serrata del M. C. aveva sparso fra i Veneziani, e l'anno 1310 tramò una congiura, ove entrarono i Querini, i Badoer, i Doro, ed altre famiglie. Pertanto nella notte dal 14 al 15 giugno raccolse in questa sua casa molti armati, coi quali, sull'alba, si avviò verso la «Piazza di S. Marco», affine di dare l'assalto al palazzo ducale. Ma colà fu sbaragliato, e posto in fuga dal doge, che, avvertito a tempo della trama, attendevalo a pié fermo coi suoi. Le conseguenze di tale disfatta furono che Bajamonte venne condannato a perpetuo esilio e che, demolita la casa ove abitava, s'innalzò in seguito, cioè nel 1364, sopra quell'area una colonna d'infamia colla seguente iscrizione: DE BAIAMONTE FO QUESTO TERENO E MO PER LO SO INIQUO TRADIMENTO S'E' POSTO IN CHOMUN PER ALTRUI SPAVENTO E PER MOSTRAR A TUTI SEMPRE SENO. Quel «Mo» del secondo verso spiegasi per «Ora», e quel «Seno» dell'ultimo per «Sieno», sottointendendovi: «queste parole». La colonna, poco dopo il suo innalzamento, fu rotta da un Francesco Fantebon, già complice di Bajamonte Tiepolo, ma poscia graziato, il quale però venne punito col taglio d'una mano, colla perdita degli occhi e col bando. In seguito essa fu levata dal «Campiello del Remer», e posta dietro la chiesa di S. Agostino. Nel 1785 il patrizio Angelo Maria Querini la ottenne dal governo, e trasportolla in una sua villa ad Altichiero. Quindi passò in mano dell'antiquario Sanquirico, e finalmente del nipote ed erede del duca Melzi, che destinolla ad ornamento d'un suo giardino sul lago di Como, ove esiste tuttora. Nel sito ove ultimamente innalzavasi in Venezia, cioè dietro l'abside della chiesa di S. Agostino, recentemente distrutta, si scorge sul pavimento una pietra bianca coll'iscrizione: col. bai. the. mcccx. Fra le altre strade di Venezia che presero il nome dall'arte dei «Remeri», non possiamo astenerci dal ricordare eziandio la «Corte del Remer» a S. Giovanni Grisostomo pegli antichi avanzi d'un palazzo colà esistente, il quale ha la scala scoperta, ed accenna alla transizione dallo stile arabo-bizantino, visibile nell'ingresso, allo stile archiacuto adoperato nelle finestre. Abbiamo molti dati per credere che il suddetto palazzo appartenesse alla patrizia famiglia Lion, e che sia quello, posto, come accennano le cronache, a S. Giovanni Grisostomo sopra il Canal Grande, non lungi da ca' da Mosto, che dopo la fellonia di Maffeo Lion doveva andar distrutto nel 1542, ma che restò in piedi perché parte ne era stata concessa dal Lion alla moglie per assicurazione di dote, e parte ne apparteneva al di lui fratello Lodovico. Remurchianti (Campiello, Calle dei) a S. Nicolò. Nell'Anagrafi Sanitaria pell'anno 1761 ben 38 «remurchianti» si veggono domiciliati in parrocchia di S. Nicolò. Così si appellano quei barcaiuoli che vogando in alcuni grossi battelli, sogliono attaccare delle corde alle navi ed alle barche per trarle al sito proposto. In questa calle, e precisamente nella casa al N. C. 2998, corrispondente al N. A. 2104, venne a morte Vincenzo Dabalà detto Manestra, ultimo doge, o gastaldo, dei Nicolotti, il quale, caduta la Repubblica, fu anche membro della Municipalità Provvisoria nel 1797. Il doge, o gastaldo, dei Nicolotti era un capo delle due contrade dell'Angelo Raffaele e di S. Nicolò, insignito d'alcuni privilegi, ma di poca o niuna autorità. Eletto dagli abitanti delle due suddette contrade, egli indossava nelle pubbliche funzioni una ampia vesta, che era, secondo le stagioni, ora di raso, ora di tabì chermisino, ora di panno scarlatto con pelli di dossi, o di vai. Usava calze chermisine, scarpe di marocchino dello stesso colore, piccola parrucca nera rotonda, berretta da gentiluomo, guanti bianchi ecc. Aveva il privilegio di seguitare il doge con una barchetta legata alla poppa del bucintoro nella cerimonia dello Sposalizio del Mare; il diritto d'esigere una tassa sopra tutte le barche pescarecce della sua contrada; e quello di tener due panche da pescajuolo nelle pescherie di S. Marco e di Rialto. Doveva poi pagare al doge, al cavaliere del doge, ed ai Giudici del Proprio un piccolo tributo. Rezzonico (Fondamenta) a S. Barnaba. Era chiamata anticamente «Fondamenta di Ca' Bon» perché conduce ad un palazzo disegnato dal Longhena, il quale apparteneva ai Bon, ma nel secolo XVIII fu acquistato dai Rezzonico, che nel 1752 lo rifabbricarono sopra disegno del Massari, aggiungendovi il terzo piano. In questa occasione, essendo il 5 agosto caduto dall'alto un macigno con cinque uomini sopra, tre di essi morirono issofatto; Giuseppe Pedolo, architetto, ebbe spezzati una gamba ed un braccio, e morì il giorno dopo; solo il quinto, coll'amputazione d'una gamba, sopravvisse. La famiglia Rezzonico, d'antico e nobile sangue comasco, fu ammessa al veneto patriziato l'anno 1687 nelle persone dei fratelli Quintiliano, Abbondio, e G. Battista, che offrirono alla Repubblica 100 mila ducati. La gloria dei Rezzonico salì al suo apogeo nel 1758, allorché ai 5 di luglio, Carlo, figlio di G. B., uno dei fratelli aggregati nel 1687 al patriziato, salì al soglio pontificio sotto il nome di Clemente XIII. Giubilante la Repubblica, elesse allora cavalieri D. Aurelio, fratello, e D. Lodovico, nipote del sommo gerarca, innalzando pure D. Aurelio alla dignità di Procuratore di S. Marco soprannumerario. Sennonché il giubilo di casa Rezzonico venne turbato dalla morte di Vittoria Barbarigo, madre di Clemente XIII, successa il 29 luglio del medesimo anno 1758. In quell'occasione, per tradurre il cadavere alle domestiche tombe dei Mendicanti, formossi dal palazzo Rezzonico alla riva opposta del «Canal Grande» un ponte di barche sopra cui sfilò il funebre corteo. L'anno successivo, ai 25 di marzo, il pontefice donò ai Veneziani la «Rosa d'Oro», e questi ai 7 marzo 1761 fregiarono della stola procuratoria anche il di lui nipote Lodovico, che ottenne il grado di Assistente al soglio pontificio e di Gonfaloniere del Senato e Popolo Romano. D. Lodovico ebbe tre fratelli: Carlo e G. Battista cardinali, ed Abbondio senatore di Roma, nonché una sorella maritata col N. U. Lodovico Widman. In Abbondio, morto nel 1810, si estinse la famiglia. Il palazzo Rezzonico venne trascelto pei trattenimenti offerti all'imperatore Giuseppe II nel 1769. Qui si diede a pubbliche spese un'accademia di canto e di suono, eseguita da 110 allieve dei quattro conservatorii, e non è a dire quanto grande si fosse il concorso, e quale la magnificenza delle assise. Rialto (Ponte, Sottoportici di). Rialto era una delle isole maggiori in cui nel principio del IX secolo venne trasportata da Malamocco la sede ducale. Quest'isola acquistò il nome dal fiumicello «Realto», o «Prealto», che, secondo alcuni, unitamente ad un ramo del Brenta, scorreale d'appresso, o più probabilmente dall'altezza e pienezza del canale da cui veniva lambita, oppure dall'alta sua posizione a paragone delle circostanti isolette, per cui si disse «Riva alta» donde Rivoalto e Rialto. Anticamente dividevasi in due parti, l'una delle quali, chiamata «ultra canalem», abbracciava l'attuale Rialto, e l'altra, chiamata «extra canalem», quello spazio ove poi sorsero le chiese di S. Bartolammeo, S. Salvatore, S. Marco, S. Maria Formosa. Talvolta Rialto prendevasi nei primi tempi per Venezia intera, ed infatti se ne potea dire la parte principale, poiché conteneva il pubblico palazzo, le principali magistrature, le carceri, il corpo delle guardie, il ginnasio, il foro mercantile, ed i magazzini degli effetti più preziosi. Il primo ponte di Rialto venne eretto sopra barche nel 1175, ovvero 1180, da Nicolò Starattoni, o Barattieri. Al pari della Fondamenta, che attualmente si dice del «Ferro», chiamavasi «della Moneta» per la prossima zecca. Vedi Ferro (Fondamenta del). Nel 1265 si costrusse sugli stili, e durò fino al 1310 in cui fu tagliato nella ritirata di Bajamonte Tiepolo. Rifatto, precipitò nel 1444 per la soverchia folla accorsa al passaggio della sposa del marchese di Ferrara. Sorse quindi di bel nuovo, ma in tutte queste rifabbriche conservossi di legno, benché si allargasse, si rendesse levatojo nel mezzo, e si adornasse ai fianchi di botteghe. Solo nel 1588 incominciossi ad innalzarlo in marmo, costando tre anni di lavoro, e 250.000 ducati di spesa. Comunemente se ne crede architetto Antonio Da Ponte, quantunque un passo, che leggesi nell'orazione funebre del doge Pasquale Cicogna, scritta da Enea Silvio Piccolomini, autore contemporaneo, ed altri argomenti modernamente addotti dall'abate Antonio Magrini, attribuiscano invece il merito del disegno ad un patrizio Gio. Alvise Boldù, e soltanto lascino quello dell'esecuzione ad Antonio Da Ponte. I «Sottoportici di Rialto» sorgono a sinistra di chi scende il ponte venendo da S. Marco, e sono sormontati da una parte delle così dette «Fabbriche Vecchie», le quali recingono da altri due lati la piazzetta che sta innanzi la chiesa di S. Giacomo. L'originaria erezione di queste fabbriche rimonta ai primi tempi della Repubblica, ma, distrutte dalle fiamme nel 1514, si riedificarono in nove anni dall'architetto Scarpagnino. Esse furono appellate «Vecchie» per distinguerle da quelle erette dal 1552 al 1555, le quali presero il nome di «Nuove». Al tempo della Repubblica vi siedevano varii magistrati, il che si verifica anche all'epoca presente. Richetti (Calle) a S. Maurizio. Leggasi «Righetti», come nel Paganuzzi e nel Quadri. Il primo che di questa famiglia troviamo nei registri dell'«Avogaria» è un Paolo Righetti, capitano al soldo della Repubblica nel secolo XVI. Lodovico di lui figlio, mercante da vino all'insegna della «Volpe», in «Calle del Fondaco» a Rialto, ebbe nel 1630 dalla moglie Paolina Fiorini un figliuolo per nome Gio. Pietro, che esercitò la professione del causidico, e che nel 1662 contrasse matrimonio con Margarita Dardani. Questi abitò per lungo tempo a S. Maurizio, come si può rilevare da una fede rilasciata dal pievano di quella contrada nel 1704 quando Isabella, figlia di Gio. Pietro, battezzata in chiesa di S. Maurizio nel 1675, presentò una supplica agli «Avogadori di Comun», acciocché i maschi ch'ella fosse per procreare con un nobile veneto godessero l'ammissione al M. C. Ridotto (Calle del) a S. Moisè. S'innalza in questa calle un antico palazzo, eretto, secondo il genealogista Girolamo Priuli, nel secolo XIV da Marco Dandolo q. Benedetto. Esso anticamente guardava il «Canal Grande», ed aveva d'innanzi un giardino. Troviamo che nel 1379 Benedetto Dandolo q. Marco v'abitava, ma poscia la famiglia proprietaria incominciò a darlo a pigione, al pari delle molte case vicine da essa possedute. Qui aveva residenza nel 1542 l'ambasciatore di Francia Guglielmo Pellicier, vescovo di Rodi, quel desso che, per mezzo d'alcuni traditori, veniva a conoscere le secrete deliberazioni della Repubblica, e tosto ne dava parte alla Corte ottomana. Avendo presso il medesimo cercato ricovero uno dei traditori suddetti, appellato Agostino Abbondio, se ne chiese tosto la consegna, ma negolla il Pellicier, e poscia, a viva forza, respinse l'avvogadore Bernardo Zorzi, che, a tale effetto, era stato spedito coi birri. Allora i due procuratori di S. Marco, Alessandro Contarini e Vincenzo Grimani, seguiti da buona mano d'armati, fatta una apertura nel muro, penetrarono nella corte dell'ambasciatore, laonde costui, intimorito, rilasciò l'Abbondio che, insieme ad altri complici, venne condannato al capestro. Ricorda il Priuli che circa all'anno 1630, in cui scriveva, il palazzo Dandolo a S. Moisè era posseduto da un altro Marco Dandolo stato già Provveditore a Salò, e cognato di Pietro Priuli, suo fratello. Egli nel 1638 appigionollo ad uso di pubblico Ridotto, ove, in tempo di carnovale, erano permessi i giuochi d'azzardo che, a scanso d'abusi, volle il governo stesso sopravvegliare, deputando alcuni patrizii, colla vesta d'uffizio, a tenere i banchi. Venuto a Venezia nel 1708 il re di Danimarca Federico IV, intervenne, come è fama, al Ridotto, mascherato in bauta, e postosi a giuocare con uno dei nostri gentiluomini, gli guadagnò molto oro. Senonché al punto del pagamento diede a divedere il regale suo animo, involandosi, dopo aver finto di sdrucciolare e gettato a terra il tavoliere con le monete, che, come è naturale, tornarono nelle saccocce del gentiluomo. Nel 1768 il Maccaruzzi diede forma novella al palazzo del Ridotto, facendo girare intorno alla sala principale altri minori, e siccome tale ristauro si operò coi danari ricavati dalla vendita di alcuni beni di conventi soppressi, ne sorsero per la città varii pungenti epigrammi. Fu probabilmente in questa occasione, che si tolse al palazzo medesimo l'architettonica facciata, nonché il giardino, e gli si rizzò un'altra fabbrica d'innanzi, privandolo così della vista del «Canal Grande». In progresso di tempo, fatto accorto il governo che il «faraone» e la «bassetta» ingoiavano tesori, e spiantavano famiglie, emanò il 27 novembre 1774 una legge con cui si prescrisse che «la casa situata nella contrada di S. Moisè, conosciuta sotto il nome di ridotto, sia, ed esser debba, dal giorno d'oggi, e per tutti i tempi ed anni avvenire, chiusa per sempre a codesto gravissimo abuso». Negli ultimi anni però della Repubblica e sotto i Francesi, il Ridotto tornò ad essere teatro dei soliti giuochi, che furono di bel nuovo proibiti sotto l'austriaca dominazione. Ora le sale di questo recinto, già da molti anni passato dai Dandolo in parecchie altre ditte, non servono per solito che alle feste di ballo mascherate del carnovale. Riello (Calle, Ponte, Fondamenta, Fondamenta al Ponte) a Castello. Da un rivo così chiamato per la ristrettezza del suo alveo. Questo nome, a cagion d'altri piccoli rivi, alcuni dei quali ora sono interrati, trovasi anche altrove ripetuto. Riformati (Calle, Rio, Fondamenta dei) a S. Bonaventura. Dai padri Francescani Riformati, che occupavano il prossimo convento di S. Bonaventura. Vedi S. Bonaventura (Ponte ecc.). Righetti (Calle). Vedi Richetti. Rigo (Sottoportico) a S. Fosca. E' prossimo al palazzo Vendramin sulla Fondamenta chiamata del «Forner», ed anche di «ca' Vendramin». Qui abitava la cittadinesca famiglia Rigo, un Giuseppe della quale così incominciò nel 1740 la notifica de' propri beni: «Io Iseppo Rigo q. Antonio abito in contrada di S. Fosca sopra la Fond.ta di ca' Vendramin». Un G. B. Rigo, agente dei Vendramin e dei Giovanelli, domiciliato in parrocchia di S. Fosca, sopra la «Fondamenta di ca' Vendramin o del Forner», fu pure citato il 21 aprile 1790 all'«Avogaria» per informare circa un Lanzetti che voleva abilitarsi all'uffizio di Cancelliere. Trovasi poi che nel 1805 i Rigo possedevano due case sopra la medesima fondamenta, in una delle quali abitavano. Rimedio (Fondamenta, Calle, Ponte del) a S. Marco. Dicono il Dezan ed altri che queste denominazioni provennero dalla malvasia che qui vendevasi, la quale, in gergo popolare, chiamavasi «Rimedio» perché credevasi che rinvigorisse le membra, e risvegliasse lo spirito. Veramente fin oltre la caduta della Repubblica esisteva in «Calle del Rimedio» una bottega da malvasia, ma noi crediamo che «Rimedio» fosse il cognome d'un conduttore della bottega medesima, poiché nel 1570 viveva in Venezia un «Remedio», venditore di malvasia, e nel 1573 troviamo un «Lorenzo di Remedio dalla Malvasia» confratello della scuola di S. Teodoro. Inoltre nel 1634, 14 luglio, «Zuane Rota q.m Bonfante» traslatò in ditta propria da quella di «Paolo, Cassandra e Francesco Maffei» una «quarta parte de casa posta in contrà de S. Maria Formosa nella qual habita li Remedii dalla malvasia». E qui richiamiamo l'attenzione del lettore sopra il fatto che la «Calle del Rimedio» era sottoposta alla parrocchia di S. Maria Formosa, e che in detta calle scorgesi tuttora una corte appellata «Rota» pegli stabili già posseduti da tale famiglia. Vedi Rota ora Campana (Corte). Quando un giovane patrizio poco distava dagli anni venti di età, si faceva vedere in una prefissa giornata, colla vesta a strascico, nella corte del Palazzo ducale, ove gli amici gli toccavano la mano, e l'abbracciavano. Ciò succedeva anche più tardi a Rialto dopo essersi rassegnato al doge. Finite tali cerimonie, colle quali intendevasi di spingere il giovane nell'arringo politico, egli, unitamente agli amici, si recava alla malvasia in «Calle del Rimedio», ove, fra i bicchieri, gli venivano augurati felici sponsali e pronti avanzamenti. Questo quadro scorgesi disegnato nella raccolta del Grevembroch al Civico Museo. Rimurchianti. Vedi Remurchianti. Rio. «Rii», o rivi, chiamansi i piccoli canali onde è tutta intersecata Venezia. Attesta il De Monacis che anticamente si chiudevano di notte con certi obici perché liberamente non si potesse girare per la città. Rioda (Ponte ecc.). Vedi Roda. Rivetta (Calle) a S. Matteo di Rialto. Forse dall'angusta riva a cui questa strada fa capo. Rizza (Calle della) a S. Marco. La locanda, od osteria, che ancora anni fa aveva in questa situazione l'insegna della «Rizza», esisteva anticamente in «Piazzetta di S. Marco», e fu qui trasferita nel 1576. Ne fa cenno il Cod. 1603, Classe VII della Marciana, colla seguente notizia, posta sotto il 27 gennaio 1773 M. V.: «Pietro Monaretti, capitano delli Ecc.mi Esecutori contro la Bestemia, mascheratosi in Bauta con altri sbirri, si portò alle ore 4 di questa sera in una camera dell'osteria che tiene l'insegna della Rizza appo San Basso, et ivi sorprese alquante persone che da qualche tempo erano solite giorno e notte trattenersi al giuoco di Bassetta e Faraone, et attrappategli circa 100 lire che avevano sul banco, asportò anche li tavolini, e sedili, indi citò li primarii, fra i quali alcuni preti, che il giorno seguente furono corretti dal Mag.to, e l'oste condannato a 6 ducati d'argento». Rizzi (Fondamenta) a S. Maria Maggiore. La famiglia Rizzi, di cui qui si scorge il palazzo, aveva anticamente bottega da orefice a Rialto. Un Giuseppe Rizzi, insieme ai fratelli G. Battista, Sebastiano, Marcantonio e Giorgio, venne approvato cittadino originario il 16 giugno 1673, e nel 1687, insieme ai medesimi, nonché insieme al zio paterno Francesco e discendenti, fu ammesso al Maggior Consiglio, previo il solito esborso dei centomila ducati. Varii individui di questa famiglia si distinsero nella carriera ecclesiastica. Del palazzo Rizzi a S. Maria Maggiore parla, sotto la data del 2 agosto 1743, il «Diario» della Marciana, da noi altrove citato (Classe XI, Cod. 58). «In questo giorno», esso dice, «il co. Francesco Algarotti, noto letterato Veneziano, va comperando anticaglie e quadri di valenti maestri per servizio della Corte di Sassonia e del re di Polonia. In ca' Rizzi a S. Maria Maggiore furono venduti quattro bei quadri con gran dispiacere dei buoni Veneziani, che mal volentieri vedono spogliare la città di così preziose pitture per marcia avarizia». Roda (Ponte, Ramo Ponte, Rio della) a San Eustachio. Ebbero il nome da quella ruota (stemma forse della patrizia famiglia Molin) la quale scorgesi scolpita sopra la muraglia dell'ultimo fabbricato costeggiante il rivo verso «Canal Grande», fabbricato che serviva alle riduzioni della confraternita dei «Battioro» e «Tiraoro». Rombiasio (Calle) a S. M. Zobenigo. La famiglia «Rompiasio, Rompiasi, Rombiasio, o Rombiasi», era antichissima nell'isola della Giudecca, ove possedeva varii stabili. Nel 1440 essa comperò i beni di Brenta Secca, che prima appartenevano ad Anselmino degli Anselmini, ribelle padovano, ed ebbe il jus-patronato della chiesa di Santa Maria Maddalena, in quella villa situata. Venne dichiarata cittadina originaria fino dal 1484, né le mancarono uomini distinti nella carriera civile, fra i quali quel Giulio che fu avvocato fiscale del Magistrato alle Acque e che ne compilò le leggi, pubblicate nel 1733. Egli secondo la Descrizione della contrada di Santa Maria Zobenigo pel 1713, abitava nella calle perciò detta «Rombiasio», in una casa del «N. U. Gritti», e colà pure aveva una casa di sua proprietà, acquistata da «Giacomo Gradenigo fu de s. Piero» con istrumento 12 gennaio 1696 M. V., ed allora appigionata a «D. Menegha r.ta del q. Antonio Gambarara». Giulio Rompiasio dalla moglie Margarita Bembo ebbe due figlie, l'una delle quali diede in consorte nel 1723 al N. U. Angelo Donà, e l'altra nel 1726 al N. U. Lorenzo Orio. Romite. Vedi Eremite. Rosario (Sottoportico e Corte del) ai SS. Filippo e Giacomo. Dalle ricerche fatte ai vecchi della contrada risulta che qui pell'addietro esisteva un altarino dedicato alla B. V. del Rosario. Può darsi che esso fosse stato eretto, e venisse mantenuto a spese della confraternita del Rosario, unitasi in chiesa dei SS. Filippo e Giacomo nel 1712, e soppressa nel 1805, poiché nelle carte di quella confraternita, esistenti nel nostro Archivio, troviamo che ogni anno spendevasi «per l'apparecchio e per le cere del sottoportico» nel Venerdì Santo, e che un anno si spese eziandio «per la pittura della tela del sottoportico». Antico è fra i Veneziani il culto alla B. V. del Rosario, ma il medesimo crebbe di molto dopoché Pio V dichiarò festivo il giorno in cui la chiesa venera sotto questo titolo Maria, e ciò in ringraziamento della vittoria ottenutasi alle Curzolari nel 1571. Dopo quel tempo si ricostruì ed ampliò, sotto la direzione del Vittoria, la cappella del Rosario nel tempio dei SS. Giovanni e Paolo, nella quale il Tintoretto dipinse i trionfi dell'armi cristiane sopra il Turco. Questa cappella con tutti i suoi capolavori, unitamente alla pala stupenda di Tiziano, il «S. Pietro Martire», che colà era depositata pel ristauro della chiesa, miseramente venne distrutta da casuale incendio il 16 agosto 1867. Vedi l'opuscolo impresso in Venezia, ed intitolato: «La Cappella del Rosario distrutta dal fuoco il 16 Agosto 1867». Rosina (Ramo Corte, Corte) ai SS. Filippo e Giacomo. Da un «bastion» da vino, il quale appellavasi la «Rosina» per la piccola rosa che aveva per insegna. Esso colla parte anteriore guardava la «Riva degli Schiavoni», e colla posteriore la corte di cui parliamo. Anticamente era sottoposto alla parrocchia di S. Giovanni Nuovo, laonde «Maria Pisani relita del q. D. Fausto Giberti notificò», in obbedienza al decreto del Senato 1711, di possedere «la quarta parte della casa, e magazzen con mezza la cortesella del bastion della Rosina, posto in contrà de S. Zuane Novo, tiene ad affitto Antonio Zachel bastioner». Rossa (Fondamenta) ai Carmini. Vedi Rosso (Ponte). Rossi (Calle, Calle) a S. Sebastiano. Un «Lunardo di Bortolomio di Rossi» dalla parrocchia dell'Angelo Raffaele, a cui queste due calli erano sottoposte, fu ascritto nel 1552 alla Scuola di S. Marco. Egli forse discendeva dalla famiglia Rossi cittadinesca, la quale diede nel 1390 un Cancellier Grande. Rosso (Ponte) ai Carmini. Il «Ponte Rosso» colla susseguente fondamenta acquistò il nome dalla tinta primitiva dei muri. Altri ponti di Venezia ebbero per la medesima causa la medesima appellazione. Rotonda (Fondamenta, Rio, Fondamenta a fianco della) alla Giudecca. Dalla forma di un edificio ove alcuni nobili veneziani davano accademie di musica, ed ove poscia fu la fabbrica di cremor di tartaro, istituita da Benedetto, fratello del celebre Amadeo Svajer, decesso nel 1814, a cui successe Giovanni Davide Weber. Si trova scritto nella cronaca Molina: «La sera del 17 Maggio» (1750) «S. E. Francesco Loredan diede grandiosa festa da ballo a molte dame estere, et a circa 30 dame Venete invitate, ove fu grandiosità di rinfreschi, illuminazioni, sinfonie, preziosità d'adobbi, e questo fu nel palazzo della Rotonda alla Giudecca». Nel 1762 questo casino era occupato dal laboratorio pirotecnico di Francesco Rebellini, caffettiere in Campo S. Polo. Alcune altre località a S. Alvise si denominano «della Rotonda» da un edificio egualmente rotondo, ora distrutto, il quale, al dir del Dezan, destinato dapprima al conservare, serviva ultimamente pur esso alla preparazione del cremor di tartaro. Nell'estimo del 1661 questo stabile trovasi così descritto: «Casin della Rotonda tenuto da varii consorti». Rotto (Campazzo) in «Birri». Da case rotte, o rovinate, l'area delle quali, priva di selciato, scorgesi tuttora. Rubbi (Calle Corte, Corte) alla Fava. Avendosi il 27 maggio 1791 istituito un processo all'«Avogaria di Comun» relativamente alla domanda fatta da una Marta Malanotti perché i figli ch'essa avesse potuto procreare, maritandosi con un nobile veneto, godessero l'ammissione al M. C., comparve fra i testimoni «il fedel Guglielmo Maria Rubbi q. Francesco, nativo Veneto, Estraordinario della Cancelleria Ducale; abita alla Fava». Guglielmo Maria Rubbi, figlio di Francesco, e di Anna Rusteghello, era stato approvato cittadino originario il 30 settembre 1778. Anche il Longo («De' Veneti Originari Cittadini, Raccolta di Aneddoti Sommarii e Catalogo») annovera la famiglia Rubbi, domiciliata alla Fava, fra quelle che nel 1792 erano capaci di concorrere alla Cancelleria Ducale. Questa famiglia, provenne in Venezia da Lemine, territorio bergamasco. Rubina (Calle) a S. Alvise. La famiglia Rubini venne da Bergamo, e prima mercanteggiò in seta, e poscia in sapone. Appartenne alle cittadinesche fino al 1646, nel qual anno G. Battista Rubini, figlio di Camillo e d'Orsola Rimondo, fu ammesso al patriziato. Dice il Ziliolo ch'egli possedeva molte ricchezze, e che aveva nobile abitazione presso S. Alvise. Probabilmente il Ziliolo parla del palazzo che tuttora si scorge presso la «Calle Rubina», ove, per testimonianza dell'estimo del 1661, abitò pure «Donà Rubin», figlio di Camillo. Un nipote di «Donà», per nome G. Battista, dopo essere stato governatore di Spoleto, Frosinone, Viterbo e Macerata, fu eletto nel 1684 vescovo di Vicenza, e nel 1690 cardinale. I Rubini si estinsero nel 1756 in un Antonio q. Camillo, nipote del cardinale Alessandro. Ruga. «Ruga», dal francese «rue», è una strada fiancheggiata quinci e quindi d'abitazioni e botteghe. Siccome poi al presente sono in tal guisa conformate quasi tutte le nostre strade, così deve ritenersi che, allorquando Venezia era soltanto in parte abitata, acquistassero tale denominazione quei siti in cui cominciossi a fabbricare nel modo indicato, e la ritenessero anche allorquando, aumentatasi la popolazione, si fecero file di case, e rughe per ogni parte. A S. Pietro di Castello abbiamo anche il «Campo» e la «Calle di Ruga». Rughetta. E' diminutivo di «Ruga». Ruzzini (Calle) in «Birri», verso le «Fondamente Nuove». Nel 1661 «Girolamo Ruzzini fo de s. M. Antonio», disse nella notifica dei propri beni: «Io habito in contrà S. Cancian, in una mia casa posta alla Racchetta di Biri, a le fondamente nove, il soler di sotto». Disse pure di possedere altri stabili in quella situazione. Egli apparteneva a chiara stirpe venuta da Costantinopoli, secondo alcuni, nel 1125, e, secondo altri, nel 1171, oppure 1229. Principale ornamento della medesima fu quel Marco, che nel 1358 sconfisse i Genovesi presso Negroponte, predando loro molte galee. La Repubblica dichiarò festivo negli anni avvenire il 29 agosto, giorno sacro alla Decollazione di S. Giovanni Battista, in cui si aveva riportato la vittoria. Un Ruzzini di nome Carlo, uomo dotto negli studi delle lettere e della politica, venne pure eletto doge di Venezia nel 1732, dopo aver sostenuto varie ambascerie alle primarie corti di Europa. |
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