Teatro (Calle e Ramo, Corte del) a S. Luca. Il teatro di S. Luca, o, come anticamente dicevasi, di S. Salvatore, credesi eretto intorno al 1622, ed apparteneva ai patrizii Vendramin. Dopo un incendio venne rifabbricato nel 1661, e vi si cantarono opere in musica, la prima delle quali fu la «Pasifae, ovvero l'Impossibile fatto Possibile», poesia dell'Artale, musica del Castrovillari. Altro incendio patì nel 1740, risorgendo però nell'anno medesimo sopra disegno di Pietro Chezia. Ebbe in seguito altri ristauri che lo resero più armonico e gajo. Si disse anche «Teatro Apollo», e nel 1875 prese il nome di «Goldoni» in onore del commediografo insigne.

Merita uno sguardo quella testina di marmo, rappresentante una donna in vecchia età, che, unitamente agli stemmi dei Bembo e dei Moro fra essi congiunti, nonché allo stemma della Confraternita di S. Rocco, scorgesi sopra una muraglia in «Corte del Teatro» a S. Luca. Se il bujo dei tempi non ci permette di sapere chi raffiguri quella testa, possiamo dedurre che essa fosse fatta collocare ove esiste dalla famiglia Querini. Infatti i Querini anche nel secolo XIV possedevano varii stabili contermini a quello di cui si parla, e quando esso nel 1387, 8 novembre, fu dato in possesso dai Giudici dell'Esaminador a donna Chiara di «ser Dionisio de Rebusatis», merciajo a S. Salvatore, non si omise di dire nel relativo istrumento, rogato dal notajo pre' Bartolammeo dei Ricovrati, esservi sopra il muro «una testa d. petra a d.na que debet removeri q.m placuerit d.no Bertucio Querino». Ciò si ripete nell'altro istrumento 25 giugno 1388, col quale Cattaruzza, moglie di Nicolò Paruta da S. Croce, di consenso del proprio marito, alienò «a Lucia da Lago relit. del nob. Nicolò Dandolo», lo stabile medesimo. Esso nel secolo XVI era dei Bembo, e da Domenico Bembo q. Tommaso venne lasciato, con altre facoltà, nel 1545 alla sorella Lucia, vedova d'Antonio Moro, che, morendo il 1° marzo 1546, lasciavalo ai figli Giacomo, Tommaso e Nicolò Moro, dall'ultimo dei quali, rimasto superstite ai fratelli, passava in commissaria per virtù del testamento 9 marzo 1552, e codicillo 17 maggio successivo (atti d'Antonio Marsilio), all'arciconfraternita di S. Rocco. Non è improbabile poi aver avuto origine dalla testina l'insegna della «Vecchia», che porta da secoli la farmacia in «Campo S. Luca», perché il casamento ove è situata arriva fino alla «Corte del Teatro» e per di dietro ha un uscio sottoposto precisamente alla testina.

Senonché, a titolo di curiosità, qui riporteremo un'altra origine dell'anzidetta insegna, che si legge nel volume IV dei «Commemoriali» manoscritti del N. U. Pietro Gradenigo da S. Giustina: «Una vecchia donna, della parrocchia di S. Paterniano, di avaro temperamento, tutto ciò che ricavava dal suo lavoro, o altra industria, nascondeva e cuciva fra le fodere di un vecchio ed inutile tabarro, il quale fra le straccie teneva nella parte più dimenticata della soffitta della propria casa, così celando al suo discolo, quanto pietoso figliuolo, tanto danaro. Un giorno nella più rigida stagione d'inverno, mosso egli da fervida compassione d'un ignoto e nudo povero interricito sulla strada dal freddo, si risolse di donare a lui il tabarro stesso, credendo non aver bisogno d'implorarne permissione alla madre per mantello sì stracciato. La settimana seguente, occorrendo alla genitrice d'aumentare il suo deposito, e non ritrovatolo per diligenza usata, interrogò finalmente il figlio se ne sapeva dar nuova, che da essa sentita fatale per la difficoltà di ricuperarlo, gli palesò per ultimo quanto oro vi era cucito onde lasciarlo in tempo di sua morte in di lui eredità. Penetrato il Giovine da tale impensata informazione, si diede tutto all'impegno di rintracciare il Mendico, ma non sortiva nell'intento. Si risolse allora di vestirsi a modo d'uno stolto inginocchiato ai scalini del Ponte di Rialto, cioè dove ogni momento concorre l'affluenza degli uomini che girano per la città, e rivolgendo un naspo adagio, adagio, secondando anche la mano con il flebile canto, che replicava a modo d'invitare li passeggeri a compatire qualche suo sfortunato destino, mai tralasciò la mentita comparsa se non diede l'occhio sopra il Povero, che cercava, quale appena veduto con lieto animo lo chiamò a sè, dimostrando compassione che in stagion sì aspra se ne stesse tanto malamente riparato. Poi gli disse: Fratello! io rimango per te sì penetrato che penso di cambiar teco il mio tabarro, tanto più che saprò con questo mezzo come meglio provvedere a me stesso.

Non fu difficile ad acconsentire il bisognoso forastiero, sorpreso dalla umanità del pio Veneziano, e ringraziatolo con mille benedizioni, prese il dono, e se ne andò con la buona ventura. Allora, senza perder tempo, lasciato il naspo, di buon passo il figlio ritornò alla madre, e con promiscuo piacere repristinarono a lor prò l'opulente borsa. Così continua il misterioso simbolo a rammentare il fatto, stante che, col mezzo del soldo, si fondò florido negozio di accreditata farmacia, contraddistinta da un significante intaglio, che rappresenta la Vecchia sedente con la Rocca ed il Fuso, a cui piedi sta il fanciullo, contorcendo il filo col mezzo d'un Naspo.

Il Fanciullo stesso si chiamava Vincenzo Quadrio, e fu primo spicier all'insegna della Vecchia».

Lasciando da parte quanto vi può essere d'inverosimile e di favoloso in questo racconto, egli è certo che il protagonista del medesimo viveva in Venezia nel secolo XVI, poiché, scorrendo alcuni testamenti del nostro Archivio, trovammo quello di Ambrogio q. Antonio Maria di Vincenti, nella parrocchia di S. Luca, ove figura, come uno dei commissarii, «Vincenzo Quadrio spicier all'insegna della Vecchia».

E' debito poi di contare che, se da principio, come vuole il Gradenigo, scorgevasi nell'insegna la Vecchia filante, col fanciullo ai piedi contorcente il filo ad un naspo, vi rimase, col progresso del tempo, la Vecchia soltanto, alla quale nel nostro secolo s'aggiunse il «Cedro Imperiale», insegna d'altra farmacia, allora soppressa, e con quella della «Vecchia» concentrata.

Teatro (Corte, Ramo Corte, Calle del) a S. Samuele. Soltanto dal 1655 si ha memoria del teatro di S. Samuele, proprietarii del quale erano i Grimani. Qui si rappresentarono commedie, e nel 1710 la prima opera, cioè l'«Ingannatore ingannato», poesia del Macchi, e musica del Gasparini. Questo teatro abbruciossi nel 1747, ma fu poscia ricostrutto in miglior forma col disegno e la direzione di Romualdo e di Alessandro Mauri, architetti e pittori teatrali, sicché nel 1748 ravvivossi coll'«Ipermestra», il cui scenario, dipinto dal veneziano G. B. Moretti, riscosse straordinari applausi. Ai nostri tempi il teatro di S. Samuele fu comperato e ristaurato dal Sig. Giuseppe Camploy con assai comodo loggione che, a guisa di ringhiera, sovrasta gli ordini dei palchetti. Da alcuni anni però rimane chiuso.

Teatro (Ramo, Campiello del) a S. Angelo. Sorse il teatro di S. Angelo nel 1676 a spese di Francesco Santorini. Passò dopo ad altre famiglie, fra le quali alla Marcello, ed alla Cappello, ma venne disfatto negli ultimi tempi, ed attualmente non ne rimane che il solo cassone destinato a magazzino. La prima opera cantata in questo teatro fu l'«Elena rapita da Paride», poesia dell'Aureli, musica del Freschi, nel 1677. Continuò coi drammi musicali fino al 1759, poscia accolse commedianti, e finalmente servì ora a questi, ed ora a quelli. Fra il tempo piuttosto lungo dedicato alle musiche eccettuisi l'anno 1748, nel quale vi si rappresentarono commedie, essendovi passati i comici del teatro di S. Samuele, poco prima rovinato dal fuoco.

Teatro (Calle, Corte, Ponte del) a S. Gio. Grisostomo. Un anno dopo il teatro di S. Angelo, cioè nel 1677, venne eretto quello di S. Gio. Grisostomo dalla famiglia Grimani. Esso era il più ampio ed armonioso che qui si conoscesse, ed il più ricco d'intagli, cornici, e dorature. Nel 1678 vi si rappresentò la prima opera, avente per titolo il «Vespasiano», poesia del Corradi, musica del Pallavicino. Questo teatro rimase in riputazione per maestri di musica, e cantanti insigni fino al 1747, ma poscia si dischiuse quasi sempre alle produzioni drammatiche. Nel 1834 fu riedificato dalla famiglia Gallo, divenutane proprietaria, sul disegno di Giuseppe Salvadori, coi loggioni comuni, oltre i palchetti separati, e coi finestroni all'intorno acciocché potesse servire anche di giorno, laonde gli venne il nome di «Emeronittio». Assunse poi l'altro di «Malibran» per riconoscenza dei Gallo, a cui questa rinomata cantante donò il provento di due spettacoli. Chiuso in questi ultimi tempi per circa 4 anni, perché non presentava in caso di pericolo la salvaguardia voluta dalle leggi vigenti, venne riaperto il 20 novembre 1886 con porte e sfoghi novelli.

Il teatro di S. Giovanni Grisostomo sorge sull'area dell'antico palazzo di Marco Polo, la quale circostanza viene rammemorata da due iscrizioni, l'una latina posta in «Calle della Chiesa», e l'altra italiana, e più recente, posta di fronte al «Ponte del Teatro». Questo ponte venne per la prima volta eretto in legno nel 1834, e poscia rifatto in ferro nel 1860.

Teatro (Salizzada, Fondamenta del) a S. Benedetto. Vedi S. Benedetto.

Teatro (Calle, Sottoportico, Corte del) a S. Moisè. Il teatrino di S. Moisè apparteneva in origine alla famiglia Giustinian, poscia passò alla Zane di S. Stin, e finalmente nel 1715 di nuovo alla Giustinian. La prima opera che vi si produsse fu l'«Arianna» di Ottavio Rinuccini colla musica del famoso Claudio Monteverde nel 1639. In seguito ristaurossi, e servì ora a commedie, ed ora ad opere musicali, alcune delle quali, come si ha memoria, vennero cantate dietro le quinte, e rappresentate per mezzo di figure di legno o di cera. Il teatro di S. Moisè si chiuse nel 1818 coll'opera di Rossini «Torvaldo e Dorliska». Poscia, per iscrupoli del proprietario si ridusse ad officina di falegname, ma ristaurato di bel nuovo nel 1872, ora serve agli spettacoli delle marionette.

Teatro (Calle, Ramo Primo, Ramo Secondo del) a San Cassiano. Questo teatro, come sembra, venne incominciato nel principio del secolo XVII, ed era detto «nuovo», perché posteriore all'altro teatro anteriormente fabbricato nella medesima contrada, pel quale vedi Teatro Vecchio (Calle, Corte del). Incendiatosi nel 1629, fu tosto ricostruito, ed in esso si rappresentò nell'inverno 1637 il primo dramma in musica che si facesse in Venezia, intitolato l'«Andromeda», poesia del Ferrari, musica del Manelli. Minacciando rovina, ebbe una rifabbrica nel 1763 sopra disegno dell'architetto Bognolo. Nel 1812 fu del tutto demolito, ed ora sulla sua area verdeggia l'orto della patrizia famiglia Albrizzi. «Alcuni si ricorderanno», scrive il cons. Rossi in una sua memoria sopra i teatri di Venezia, «come fosse alto fuor di misura, tenendo un ordine di palchetti più di qualunque altro, e come negli ultimi anni della sua durazione solessero i Veneziani sovente, tra un atto e l'altro delle Commedie, o dell'Opere musicali, ripetere in esso una specie di baccanale, cenando molti senza cerimonie, ma gran rumore nei palchetti, e nella platea, apparendo d'improvviso qua e là irregolare illuminazione spontanea».

Danzava in questo teatro Stella Cellini, che, rifiutando di prestarsi alle concupiscenze del N. U. Tommaso Sandi, giudice della «Bestemmia», veniva, per vendetta, accusata dal medesimo al proprio tribunale di pubblica vita scandalosa perfino con Turchi. Essa perciò condannavasi allo sfratto il 29 gennaio 1780 M. V., ma, sporto reclamo al Consiglio dei X, e dichiarata, per fede giurata di due ostetrici, tuttora pulcella, era assolta pienamente pochi giorni dopo, e tornava a danzare sulle scene fra gli applausi del popolo che, gettando la cosa in celia, cominciava da quell'istante a giurare per la vergine Cellini. Vedi Ballerini: «Lettere 9 e 17 febbraio 1780» citate nelle «Memorie Storiche degli ultimi cinquant'anni della Repubblica Veneta» del Mutinelli; e vedi anche Zilli: «Memorie di Casi avvenuti in Venezia» ecc. (Codice Cicogna 1166).

Teatro (Corte del) o Lavezzara a S. Fantino. E' così detta, colla prossima «Calle del Forno» o «del Teatro», dal teatro della Fenice. Vedi Fenice (Ponte ecc. della).

Per la seconda denominazione vedi Lavezzara (Corte).

Teatro Vecchio (Calle, Corte del) a S. Cassiano. Il primo teatro in Venezia fu eretto in legno dal Palladio nell'atrio del monastero della Carità l'anno 1565, mentre per lo innanzi le rappresentazioni teatrali seguivano sopra mobili palchi nelle sale e nelle corti dei palazzi, o nei conventi. Poco dopo si pensò di erigere un teatro di pietra a S. Cassiano poco lungi dalla «Calle del Campanile», il quale era di forma ellittica, e servì alla rappresentazione di commedie.

Dopoché sorse nella medesima contrada l'altro teatro da noi mentovato più sopra, le vie prossime a quello di cui parliamo presero il nome della «Commedia Vecchia», o «del Teatro Vecchio». Esso, prima ancora della metà del secolo trascorso, fu chiuso, e quindi dalla famiglia proprietaria Michiel converso in misere casucce.

Tedeschi (Ramo Campo, Campo dei) a S. Giacomo dall'Orio. Sostiene il Dezan che queste località, le quali sono vicine al sito appellato «Gradisca», abbiano tratto il nome da quei di Gradisca, venuti, come dicemmo, a Venezia per esercitare il lanificio, e volgarmente detti Tedeschi perché confinanti con tale nazione. Vedi Gradisca (Calle, Ramo). E veramente nei Necrologi Sanitarii, e specialmente in quello del 1630, anno in cui la peste fece tante vittime in Venezia, trovansi fra i decessi nella parrocchia di S. Giacomo dall'Orio molti individui addetti al lanificio, e contraddistinti coll'appellazione di Tedeschi.

Tedeschi (Calle dei) a S. Samuele. Venuti a Venezia alcuni prestinai tedeschi per cuocere i biscotti ad uso delle milizie, furono stanziati a lavorare nell'isola di S. Elena. Essi nel 1433 comperarono in parrocchia di S. Samuele alcune case per formarvi uno spedale ove, in caso di malattia, avessero potuto curare i loro confratelli. Tali stabili, come si desume dagli Estimi, erano nella calle di cui parliamo. I prestinai tedeschi, come nota il Coronelli, si radunavano nella vicina chiesa di S. Stefano sotto l'invocazione della Natività di Maria Vergine.

Testori (Calle dei) a S. Andrea. Da case spettanti all'arte dei Tessitori di seta, e che, unitamente ad altre nel vicino «Campo di S. Andrea», servivano ad ospizio dei poveri infermi dell'arte stessa. Sopra una di queste case leggevasi la seguente iscrizione: Fu Fatta De Beni Dell'offizio Et Arte De Testori Da Panni Di Seda. Anno MDCCXI. Tale iscrizione venne tolta allorquando le case medesime, già acquistate dall'ab. Lorenzo Barbaro a benefizio di alcune donzelle bisognose e derelitte, ebbero un ristauro, e convertironsi in istituto d'educazione femminile, diretto dalle suore di S. Dorotea, la cui regolare attivazione venne sancita con decreto del governo austriaco 24 marzo 1840.

Come abbiamo altrove veduto, il setificio incominciò nel secolo XIV a fiorire in Venezia per la venuta delle famiglie Lucchesi. Dal 1300 al 1660 il numero dei telai, che servivano ai lavori della seta da spedirsi in Ponente, giunse fino ai tremila, oltre ad altri mille dedicati all'uso della città e dello stato. Nei tempi successivi però incominciarono a decrescere tanto che, sul cadere della Repubblica, non se ne contavano che 350, metà pel Levante, e metà per le provincie venete. Finalmente si ristrinsero a 300, ed ancor meno. I Tessitori di seta, come appare dalla loro «mariegola», avevano scelta per loro protettrice la B. Vergine Annunziata, e si ha memoria di due scuole di divozione che ad essi appartennero, l'una accanto la chiesa dell'Abazia, nell'antico albergo della confraternita della Misericordia; l'altra in chiesa dei Gesuiti. Quest'arte dimostrò la propria magnificenza principalmente quando ebbe luogo il solenne ingresso della dogaressa Morosini, cioè il 4 maggio 1597. Imperciocché avea posto nelle stanze dei «Signori di Notte al Criminale», in palazzo, due gran pilastri con un grosso architrave sopra, coperto di panni di seta d'oro variopinti, in forma di portone, e dalle bande del corridoio lunghi teli di raso giallo e di damasco chermesino, e dentro, nell'uffizio, un fornimento di tela d'oro pieno di cordelle d'argento con fregi lavorati d'argento e d'oro. Avea coperto poi la tavola delle argenterie con tabì d'oro, tutto disegnato ed orlato all'interno di tabì d'argento, pieno di fogliami di seta verde e d'oro.

Testori (Calle ecc.) a S. Felice. Vedi Pali.

Tiepolo Giambattista (Calle) a S. Giuseppe.

Torretta (Sottoportico e Corte) a S. Marco. Era nominata «Corte del Torretto». Ciò indica che il nome proviene dalla famiglia «Torretto», un «Iseppo q. Bernardo» della quale abitava in questa situazione nel secolo XVI.

Torretta (Ponte della) a S. Girolamo. Scorgendo il Dezan che questo ponte trovasi appellato nell'«Iconografia» del Paganuzzi «Ponte delle Torrette», venne indotto nella credenza che il medesimo abbia desunto il nome da due piccole torri, innalzate un tempo sopra qualche prossimo fabbricato.

Traghetto Vecchio (Calle del) a S. Tomà. Da un antico traghetto che più non esiste. Forse quest'appellazione nacque quando a S. Tomà si stabilì il traghetto attuale presso il «Campiello Centani».

Il traghetto vecchio di S. Tomà è celebre per un ratto commesso nel secolo XV. Leggesi nei Diari di Marino Sanudo che nel 1482, 3 marzo, «al trageto vecchio di S. Thomado fo rapìdo la fia de Zuan di Riviera, donzella che andava a messa con la madre, per Francesco Zucato di sier Polo, qual era travestido, e fo afferrada e messa in barca per forza, e menata via. Parve tal cossa di novo a tutti, adeo per gli avogadori di comun fu posto un bando di terra e luoghi, con taja Lire 3000 o vivo o morto».

Tramontin o Basadonna (Sottoportico, Corte) a S. Salvatore. Abitava in questa corte nel 1713, e 1740 un «Zuane Tramontin q. Anzolo, tornidor d'avorio», in una casa del N. U. «Francesco Pasqualigo Basadonna». Questo «Zuane Tramontin» teneva aperta una bottega d'avorio e di chincaglie in «Merceria» all'insegna dei «Due Elefanti». Ne parla un «Diario Veneto» manoscritto, da noi altre volte citato, sotto la data 3 maggio 1743 colle seguenti parole: «Il sig. Duca di Modena doveva partire la sera del primo di questo mese, ed aveva fatto aprire apposta la bottega del Tramontin in Merceria per provvedersi di scattole ed altro».

Un ramo dei Pasqualigo, che perciò assunse l'altro cognome di Basadonna, aveva nel secolo trascorso ereditato dai Basadonna alcune case e botteghe nella situazione di cui si parla, che, fino dal 26 febbraio 1592 M. V., G. Francesco Basadonna q. Girolamo traslatò dai Loredan in virtù del suo contratto di nozze con Marietta Loredan. La famiglia Basadonna, passata da Altino a Burano, e da Burano a Venezia, si rese celebre per antichi tribuni, e per lunga schiera di distinti senatori.

Tre Archi (Ponte dei) a S. Giobbe. Vedi S. Giobbe.

Tre Croci (Calle) in Birri. Vedi Croce.

Tre Ponti (Ponte, Rio, Campazzo dei) a S. Andrea. Un ponte, che si divide in tre rami, e che tuttora sussiste, dà questa denominazione.

Abitava «ai Tre Ponti» quel G. Battista Piantella «saoner», il quale, essendo stato licenziato dalla «savoneria» di Antonio Biondini per furto, e condannato al bando di 20 anni, aspettò per vendicarsi che il Biondini suddetto passasse per la sua casa, ed allora, spintolo entro la propria porta, massacrollo a colpi di mazza. Poscia, indossati gli abiti dell'interfetto, andò alla di lui abitazione, di là non molto discosta, uccise la serva Lucietta, e s'impadronì di tutti gli effetti rinvenuti, dopoché fuggissi da Venezia. Ma colto in quel di Trevigi, venne giustiziato il 1° febbraio 1710 M. V. a tenore della seguente sentenza... «sia posto sopra una piata sopra il palo di berlina, e condotto a S. Croce, dovendo nel viaggio esserli dato cinque botte di tanaglia infocata in traghetto per traghetto, ed ivi giunto, per il ministro di giustizia, li sia tagliata la mano più valida, sicché si separi dal braccio, e con la medesima appesa al collo, sia trascinato a coda di cavallo al luoco del commesso delitto a S. Andrea, dove parimente li sia tagliata l'altra mano, et con la medesima parimente al collo, sia trascinato in piazza tra le due colonne di S. Marco, dovendo nel viaggio, per pubblico Comandador, essere pubblicata la sua colpa, et poi sopra un emminente solaro dal detto ministro di giustizia li sia tagliata la testa, sicché si separi dal busto e muora, e diviso il suo cadavere in quattro quarti, siano li medesimi appesi ai luochi soliti sino alla consumazione»... Maddalena poi, madre di Piantella, e sua complice, fu condannata alla prigione in vita, ma, ammalatasi di febbre, in tre mesi morì.

Dicesi che nel caso di Piantella, come in qualche altro, si desse a divedere il buon cuore del popolo veneziano, il quale si mise a gettare materassi ed altre cose soffici sulla via per la quale il reo, a coda di cavallo, veniva trascinato, acciocché meno dura riuscire gli dovesse la fatale traversata.

Tron (Calle, Rio) a S. Eustachio. Discordi i cronisti circa la regione donde venne a Venezia la patrizia famiglia Tron, sono tutti concordi nel constatare l'antichità della sua venuta. Sembra che tosto prendesse stanza colà ove poscia formossi la contrada di S. Eustachio, poiché riporta il Savina che i Tron fondarono nel 966, insieme con altre famiglie, la chiesa dedicata a questo Santo. Secondo il Barbaro, poi viveva in contrada di Sant'Eustachio nei primi anni del secolo XIV un Marco Tron, padre di quel Donato che l'anno 1379 faceva fazione all'estimo del comune nella contrada medesima. E per vero dire, il palazzo Tron a S. Eustachio, respicente col prospetto il «Canal Grande», ad onta della rifabbrica ottenuta sulla fine del secolo XVI, conserva ancora nell'interno alcuni indizi della sua vetustà. La famiglia che ne era proprietaria vanta un doge per nome Nicolò, eletto nel 1471. Notissimi poi sono i meriti da essa acquistati nelle guerre contro i Turchi, meriti che indarno cercò d'oscurare quel Girolamo, giustiziato nel 1504 fra le colonne del palazzo ducale perché, corrotto dagli infedeli, consegnò loro la rocca di Lepanto in cui trovavasi come governatore. Il Barbaro racconta un aneddoto successo ad un «Piero fu de s. Alvise» di questa famiglia.

Diede costui da allattare una bambina ad una donna di bassa schiatta, madre d'altra bambina d'eguale età. Collocò poi in matrimonio quella che credeva la propria figliuola con un gentiluomo, e l'altra con un calzolaio. Senonché la balia venuta a termine di morte, confessò lo scambio da lei operato fra le fanciulle mentre erano ancora in fasce, dichiarando che la moglie del gentiluomo era parto delle sue viscere, e che quella del calzolaio apparteneva invece alla progenie dei Tron. Il palazzo Tron a S. Eustachio ospitò nel 1684 Massimiliano elettore di Baviera, e nel 1739 venne colpito da saetta in una delle sue guglie. In esso nel 1775 Andrea Tron diede una splendida festa da ballo all'imperatore Giuseppe II, venuto con altri principi a visitare Venezia. Questo senatore, distinto uomo di stato, fu tenuto in gran pregio dal principe ereditario di Russia, che il volle sempre vicino nella brillante dimora fatta fra noi colla consorte nel 1782. I Tron da S. Eustachio andarono estinti l'8 giugno 1800 in un Vincenzo q. Nicolò già stato luogotenente ad Udine.

Altre strade di Venezia presero il nome della famiglia Tron.

Tron (Ponte) o della Piavola. Vedi S. Gallo.

Tabacchi. Vedi Fabbrica dei tabacchi.

Tabacco (Calle del) o del Figher all'«Anconetta». Da uno spaccio di tabacco, che esisteva all'imboccatura di questa calle, che poscia venne trasportato quasi dirimpetto, ed ora nuovamente in vicinanza della calle stessa.

Il tabacco s'importò a Venezia nel secolo XVII, ed in sulle prime vendevasi dagli speziali di medicina. Avendo avuto nel 1651, il veneto Senato una comunicazione dal residente Paolo Vendramin circa il modo con cui si regolava nel regno di Napoli il commercio del tabacco, incaricò, con decreto 29 aprile di quell'anno, i Savii alla Mercanzia di riflettere se le medesime regole potessero attuarsi anche negli stati della Repubblica.

In «Calle del Tabacco», o del «Figher», all'Anconetta, abitava in casa propria nel 1661 Marco Boschini pittore, e scrittore delle «Ricche Minere della Pittura Veneziana», da noi nel corso di questa opera spesse volte citate.

Un «Ramo», ed una «Calle del Tabacco», probabilmente pel medesimo motivo così denominati, scorgonsi pure a S. Stin.

Per la seconda denominazione vedi Fico (Ramo Calle del).

Tagliacalze (Corte) a Castello. La Descrizione della contrada di S. Pietro di Castello pel 1661 la chiama «Corte del Tagliacalze», e dimostra che al suo ingresso stanziava «Rocco Villi Sartor», il quale pagava pigione al «N. U. Polo Corner».

I sarti veneziani, come altrove abbiamo notato, si distinguevano in tre classi, cioè «Sartori da veste», «Sartori da ziponi» (giubboni), e «Sartori da calze» (sinonimo di «brache»). Questi pur anche «tagliacalze» erano appellati.

Tagliapietra (Campiello del) ai SS. Ermagora e Fortunato. Le officine degli scalpellini (tagliapietre) diedero il nome a moltissimi sentieri della città. Questa ai SS. Ermagora e Fortunato esiste tuttora. Anticamente gli scalpellini erano accomunati cogli scultori, e soltanto, come nota il Temanza, nel 1723, oppure, come racconta il Sagredo, nel 1727, si divisero. Dicesi essere ciò avvenuto per opera dello scultore Antonio Corradini. Gli scalpellini avevano per protettori i quattro Santi Coronati, e si radunavano prima a S. Giovanni Ev., donde nel 1515 passarono a Sant'Apollinare, ove, specialmente per le cure di Pietro Lombardo loro gastaldo, comperarono un fondo presso la chiesa, dalla parte del campanile, per erigersi un albergo, sul piano superiore del quale scorgonsi scolpiti tuttora i quattro Santi Coronati coll'iscrizione: MDCLII Scola di Tagiapiera. Quattro gradi si conoscevano in quest'arte: garzoni, lavoranti, maestri, e padroni dell'officina, detti perciò «paroni de corte», perché le officine degli scalpellini, ove tengono le pietre e si lavora di grosso, sono nei cortili ad aria aperta. La prova per essere maestri consisteva nello scolpire una base attica che doveva disegnarsi, e compirsi senza sagoma, e traendola dal disegno. Poi il lavoro veniva misurato con un modulo di rame. Gli scalpellini, per disciplina ed economia, dipendevano dai «Giustizieri Vecchi», e dai «Provveditori della Giustizia Vecchia», e per le gravezze e pei livelli dal «Collegio della Milizia da Mar».

Non lungi dal «Campiello del Tagliapietra» ai SS. Ermagora e Fortunato arse il dì 28 novembre 1789 un memorabile incendio, di cui nel giornale veneto «Il Nuovo Postiglione, o Novelle del Mondo», troviamo i cenni seguenti: «Accesosi fortuitamente in uno dei magazzini da olio, trascorse come torrente pel vicino canale; distrusse d'un lato le case adiacenti lungo il campiello, le Colombine, ed il Volto Santo, e dall'altro tutto lo spazio tra il canale stesso ed il Campiello dell'Anconetta. Le case perdute furono circa 60, abitate da 140 desolate famiglie, tra le quali 50 composte da circa 400 indigenti». Aggiunge il Gradenigo ne' suoi «Notatori» che i predetti magazzini appartenevano alla ditta Giovanni Heilzelmann, che erano pieni di 240 mila libre d'olio, e che l'incendio ebbe origine dal fuoco ivi tenuto per disgelare l'olio, o dalla dimenticanza di spegnere la lucerna pendente dal soffitto. Narra poi «Il Nuovo Postiglione» medesimo come il doge soccorresse i danneggiati con 24000 lire, Giulio Corner con 16000, Giulio Contarini con 5000, e la Società del Nobile Casino di San Samuele con 4400.

Aprironsi inoltre offerte volontarie nelle chiese dei SS. Ermagora e Fortunato, S. Paolo, S. Giovanni in Bragora, e San Giuliano. Né tacciono i Giornali dell'epoca come, in seguito, alcuni buoni temponi, o male intenzionati, s'aggirassero di notte quasi fantasmi per le macerie delle fabbriche incendiate, spaventando i passanti.

Per tal incendio rammemorato sulla facciata delle case appartenenti alla confraternita del Volto Santo al «Ponte dell'Anconetta», vedi anche l'opuscolo pubblicato in Venezia col titolo: «Stanze sull'incendio avvenuto in Venezia il dì 28 novembre 1789 colla veduta delle rovine», in 8°, nonché il Codice Cicogna 2986.

Taiai (Calle dei) a S. Nicolò. «Domenico e Girolamo Ferro detti Tajai» possedevano in questa calle nel 1661 una «casa da statio con soler et pepian con cortesella sopra la laguna». Veggansi le Condizioni di quell'anno, e notisi che, allorquando non esisteva ancora l'opposto «Campo di Marte», la «Calle dei Tajai» guardava appunto colla sua parte posteriore la laguna. Trovasi pur anche che un «Alberto Ferro detto Tajao» da S. Nicolò era nel 1665 uno dei Decani della Scuola Grande di S. Marco.

Tamossi (Fondamenta, Sottoportico, Calle, Ramo) a S. Apollinare. Dalla famiglia Tamossi, ditta bancaria di gran credito, ma ora estinta, un Domenico della quale, procuratore della chiesa di S. Apollinare, venne in essa sepolto nel 1757. I Tamossi anche nel principio del nostro secolo tenevano a pigione un palazzo archiacuto qui posto, ove, come sembra, nel secolo XVI stanziava Pietro Bonaventuri, il seduttore di Bianca Cappello, quando attendeva alle ragioni del banco Salviati. Vedi Storto (Ponte). Egli è certo che Bartolammeo Cappello, padre di Bianca, nella querela presentata il 9 dicembre 1563 pel rapimento della figlia, disse che Pietro, collo zio ed altri complici, aveva una casa «alquanto discosta dalla mia, dove habito al Ponte Storto, ma che facilmente però si può veder per retta linea per via del canal». Questo palazzo era un fedecommesso degli Zorzi, ma oggidì viene posseduto ed abitato dal cav. Federico Stefani, il quale ci avverte come, ristaurando il palazzo medesimo, vi ritrovò sculta in marmo l'arma dei Caminesi, donde argomenta, che esso, in tempi antichi, appartenesse a questa nobilissima famiglia. Infatti si rileva da un documento, riportato nella «Storia della Marca Trivigiana e Veronese» del Verci, che Ensidisio, conte di Collalto, creò in Venezia un notaio il 16 dicembre 1392 nel palazzo di Gerardo q. Guecellone da Camin, situato in parrocchia di S. Apollinare.

Tana (Fondamenta Rio, Rio, Ponte, Ramo del Ponte, Campo della) all'Arsenale. La Tana, costrutta nel 1303, ovvero 1304, e rinnovata nel 1579 dall'architetto Da Ponte, oltreché officina dell'Arsenale, era emporio del canape di pubblica e privata appartenenza. Qui, fatta scelta del migliore, si allestivano le gomene, e le altre grosse funi pel servizio dei navigli da guerra e di commercio, né era permesso di formarle altrove, specialmente quando avessero superato una determinata grossezza. Questa sala chiamossi Tana, secondo il Gallicciolli, dal nome d'una palude che si asciugò per formarla, ma, secondo l'Algarotti, da Tana città situata alle sponde del fiume Tanai, ora Don, donde il canape traevasi dai Veneziani, e dove fino dal 1281 possedevano vastissimi fondachi, ed altri stabilimenti mercantili, che soggiacquero poscia a distruzione ed incendii nel 1410. Essa aveva l'ingresso, ora otturato, in «Campo della Tana», mentre internamente non comunicava col restante dell'Arsenale che per mezzo di una piccola porta a comodo di passare le sarchie («sarte»), la quale troviamo nominata in un decreto del Senato 21 agosto 1539. Alla Tana presiedeva un magistrato composto di tre patrizii, che anticamente portavano il titolo di «Uffiziali alla Camera del Cànevo», e poscia di «Visdomini alla Tana», e che in «Campo della Tana» avevano il loro uffizio in quel fabbricato sopra cui scorgesi l'anno 1589 collo stemma del doge d'allora Pasquale Cicogna, e sopra cui doveva esistere pure, come ben si vede, l'immagine del Leone di S. Marco, ora scalpellata, ma visibile tuttavia sul prossimo pozzo fra gli stemmi Badoer, Bembo ed Erizzo, in memoria dei tre visdomini erettori del medesimo.

I «Conzacànevi» (acconciatori di canape) della Tana si raccoglievano in divoto sovvegno nella chiesa di San Biagio, all'altare della Madonna dei Sette Dolori, sotto il patrocinio della SS. Croce. Anche i «Filacànevi» della Tana si raccoglievano un tempo, sotto il patrocinio di San Bernardino, in chiesa di S. Biagio, ma poscia nel 1488 trasportarono la scuola in chiesa S. Giovanni in Bragora.

Sulla «Fondamenta della Tana» nacque nel 1775 un ridicolo e strano avvenimento che vogliamo riportare. Giuseppe Musolo, medico, avendo certa ruggine con Matilde figliuola del capitano Lorenzo Cassinis, nobile padovano, perché credeva ch'ella avesse fatto alcuni mali uffizi nei dissapori coi di lui fratelli, la raggiunse per di dietro una mattina sulla «Fondamenta della Tana», ed afferratala pel collo, e gettatala a terra, alzolle le vesti battendola a carni nude sulle parti deretane, in mezzo al ludibrio della plebaglia. Perciò venne bandito, ed in quell'occasione venne divulgato per Venezia un burlesco sonetto. Vedi «Miscellanea Cicogna N. 687».

Il «Campo della Tana» era prescelto nel secolo passato dai Castellani per celebrare le così dette «Forze di Ercole». Vedi S. Gregorio (Campo ecc.).

Tapezzier (Calle del) a S. Polo. I «Tapezzieri», uniti ai «Seleri» (sellai), ed ai «Bolzeri» (valigiai), erano anticamente un colonnello dell'arte dei Merciai, ma nel 1370 se ne staccarono eleggendosi a protettrice la Beata Vergine Assunta, ed ottenendo di radunarsi in chiesa di S. Felice. Da S. Felice passarono a S. Gallo, e di là a S. Fantino. Aggiunsero frattanto alla B. Vergine, come loro protettore, anche S. Gualfardo di professione sellaio. Essi nel 1773 avevano sei capimastri, dodici lavoranti, e tre garzoni.

Tedeum (Calle del) a Santa Giustina, dietro la chiesa. O ricorda, come accenna il Berlan, il doge Marcantonio Giustiniani, chiamato il principe del «Tedeum» pei molti «Tedeum» da lui fatti cantare in seguito alle vittorie riportate sopra gli infedeli, il quale fu sepolto l'anno 1688 nella vicina chiesa di S. Francesco della Vigna, e forse ebbe in questa situazione degli stabili; o trasse il nome, come pensa il Quadri, dal solenne «Tedeum» che cantavasi annualmente nella chiesa di S. Giustina nel giorno dedicato a questa Santa in memoria del trionfo riportato in tal giorno l'anno 1571 sopra la flotta turca presso le Curzolari.

Il Sabellico, dopo aver parlato della chiesa di S. Giustina, allude a questa calle, colle parole: «Angusto vico eunti herbidus aperitur campus cum antiquo in Murianum trajectu qui frequentari desiit. Excurrit planities illa, utpote in urbis recessu, aliquanto licentiosius ad alteros Francisci gymnopodas».

Terco (Calle del) a Castello. «Terco» è cognome di famiglia. Un «G. Maria Terco» possedeva stabili a Castello nel secolo XVII.

In «Calle del Terco» esistevano alcune casette destinate a ricovero di povere vedove. Esse provengono dalla commissaria ordinata da Bonifacio Antelmi Cancelliere Grande, con testamento 12 novembre 1610, atti Giulio Ziliol.

Terese (Calle, Fondamenta, Rio delle) a S. Nicolò. Maria, figliuola di Maddalena Poli e di Luigi Ferrazzo intarsiatore, rimasta orfana dei genitori morti nella peste del 1630, si diede tutta alla vita spirituale sotto la direzione del carmelitano Bonaventura Pinzoni, ed intorno al 1647 comperò un locale che, prima di trasferirsi a S. Alvise, era stato sede dei pp. Riformati, per ridurlo, con prossima chiesa, a convento di vergini Carmelitane, le quali volgarmente s'appellarono le «Terese». Sottopose poi nel 1648 gli edificii al juspatronato ducale, laonde sorse il costume, nel 1745 che la chiesa delle Terese venisse visitata annualmente nel giorno della Santa titolare dal Doge e dalla Signoria, visita trasferita più tardi al giorno della B.V. del Carmine. La Ferrazzo andò poscia a fondare altri chiostri a Padova, Vicenza e Verona, e reduce in patria, morì nel 1668, non senza prima aver avuto il contento di veder rifabbricato il monastero da lei qui fondato, ed ingrandita la chiesa sul disegno di Andrea Cominelli. Le di lei seguaci restarono nel sacro asilo fino al 1810. Nel 1811 il locale fu convertito in orfanotrofio prima d'ambi i sessi, e nel 1818 di femmine soltanto, al cui uso destinossi anche la chiesa.

Terrazza (Corte della) all'Ospedaletto. Da un terrazzo scoperto, tuttora sussistente. Qui tu scorgi gli avanzi d'un antico palazzo con scala scoperta ad archi, che furono otturati, e con una bella «vera» di pozzo lombardesca, sopra la quale, oltre le solite maschere in giro, ed altri fregi, scorgesi scolpito un orologio. Questo pozzo venne disegnato dal Grevembroch coll'annotazione: «Pozzo scolpito con antica eleganza, e quasi occulto, giace nel centro della corte di ca' Magno, a fianco dell'ospitale dei Derelitti».

Terrazzera (Calle) a S. Giovanni in Bragora. E' chiamata negli Estimi «Calle del Terazzer» da un terrazzaio, o lavoratore di terrazzo, che qui anticamente abitava. Quest'arte, in cui tanto si distinsero i nostri, era conosciuta anche dai Romani. Anch'essi, come attesta Vitruvio, formavano il terrazzo di calce con sassi o mattoni, pesti e polverizzati, lo induravano mediante battitoi, lustravanlo mediante olio linaceo, e mediante pomici lisciavanlo, «rudus novum» dicendolo se fatto con sassi, e «rudus redivivum» se con pesti mattoni. I «Terazzeri», uniti in corpo nel 1736, avevano la loro scuola di divozione nella chiesa di S. Paterniano sotto il titolo di S. Floriano. Poi trasportaronsi in un albergo contiguo alla chiesa di S. Samuele, dov'era un'antica confraternita di San Spiridione, laonde a S. Floriano aggiunsero, come loro protettore, anche S. Spiridione. Vedi Agostino Sagredo: «Sulle consorterie delle arti edificative in Venezia», 1856.

Terren (Campiello del) a S. Nicolò. Questo tratto di strada, che è prossimo al così detto «Arzere di S. Nicolò», è chiamato nella Descrizione della contrada di S. Nicolò pel 1713 «Campiel del Panizza» coll'annotazione che colà esisteva un «terren vacuo era del Panizza». E «Campiel del Panizza» lo chiamano pure le tavole topografiche del Paganuzzi. I Panizza lo avevano acquistato alla metà circa del secolo XVII, come si vede dalla seguente appendice alla notifica dei loro beni, che essi presentarono ai X Savii il 24 ottobre 1646: «Sia aggionto alla Condizione di noi Alvise Panizza e frat. fo de s. Iseppo un terren vacuo, dove era alcune casette ruinose, posto in contrà di S. Nicolò, in arzere, acquistato dall'off. delle Cazude sotto il 17 april p. passato, venduto per debito de Sebastian et Zorzi de Busi, et Gier.ma Rimondo, consorte Zorzi di Busi, debitori al d. off. del qual terren non si cava cosa alcuna, et quando si fabbricherà, et caverà affitto si darà in nota».

Testa (Calle, Sottoportico e Corte della) ai SS. Giovanni e Paolo. Da una smisurata testa di marmo, che si vede innestata nel muro, avanzo per certo di più antichi edifizi.

Avendo un Leonardo Corradini il 12 gennaio 1490 M. V. donato alla Scuola di S. Marco una casa da stazio, situata in «Calle della Testa» ai SS. Giovanni e Paolo, la Scuola suddetta nel 1495 vi trasportò il proprio ospizio, che fino dal 1347 era stato fondato in parrocchia della Croce. Qui alloggiavansi, e mantenevansi quattro poveri fratelli, che dovevano portare sull'abito un San Marco, e che percepivano annui ducati 22 per ciascheduno. V'era pure un mansionario coll'elemosina d'annui ducati 18. Sopra la porta dell'ospizio, ora privata abitazione, eravi un bassorilievo rappresentante, come si scorge nel Grevembroch, la comitiva dei confratelli inginocchiati con a capo il priore, pure inginocchiato, recante il gonfalone di S. Marco.

Pel «Teatro di Calle della Testa» vedi Berlendis (Calle).

Una prossima viuzza, oltre il nome di «Calle della Testa», porta quello di «Stellon». Vedi Stellon (Calle) detta della Testa.

Tetta (Calle, Ponte e Fondamenta) a S. Giovanni Laterano. La famiglia Tetta era nobile di Sebenico, e vanta fra i suoi fasti quel Giacinto che, avendo valorosamente combattuto in Polonia come colonnello, ebbe dal re Giovanni III il titolo di marchese con giurisdizione feudale, mediante diploma dato in Varsavia il 26 marzo 1683. Lorenzo, di lui fratello, trapiantò il primo la famiglia da Sebenico a Venezia circa l'anno 1611. Egli attese alla mercatura, e nel 1636 presentò supplica all'«Avogaria» perché «Marchiò» e «Z. Nicolò» di lui figli venissero approvati cittadini originarii. I due fratelli ottennero la grazia, e «Marchiò» si vide pure rivestito coi discendenti del titolo marchesale, concesso allo zio Giacinto, titolo riconosciuto dalla Repubblica il 2 ottobre 1683. Questo «Marchiò» Tetta fu Guardian Grande dell'Arciconfraternita di S. Rocco, e Governatore dell'ospitale dei Mendicanti, nella cui chiesa pose tomba a sé, alla moglie Catterina e posteri, colla data del 1693. Un'altra aggregazione alla cittadinanza ebbero nel 1718 Lorenzo, Francesco Antonio, G. Domenico, Giacinto ed Alvise Tetta, figliuoli di «Marchiò», i quali tutti abitavano allora in parrocchia di S. M. Formosa, e precisamente a S. Giovanni Laterano nella «callesella va al Ponte di Ca' Tetta». Il casamento da essi posseduto è quello che sorge in quel punto ove il «Rio del Pestrin» si divide ne' due rivi di S. Giovanni Laterano.

Tette (Ponte e Fondamenta delle) a S. Cassiano. Affine di ritrovare l'origine delle presenti denominazioni è da considerarsi che i posti delle meretrici, stanziate in «Carampane», arrivavano fino a questo ponte ed a questa fondamenta, e che esse solevano stare al balcone colle «tete» (poppe) scoperte per allettare i passanti (Gallicciolli, «Memorie», T. VI). A quanto si dice, tale costume provenne da una legge del governo, emanata allo scopo di distogliere con siffatto incentivo gli uomini dal peccare contro natura. Che poi la sodomia si fosse anticamente abbarbicata in Venezia, lo provano varii turpi fatti raccontati dalle cronache, fra cui quello di un «s. Bernardino Correr», il quale, come racconta il Sanudo («Guerra di Ferrara», Cod. 801, Classe VII della Marciana) nel 1482 «volse sforzar ser Hieronimo q. ser Urban zovene bellissimo per sodomia una sera che lo trovò in calle da Ca' Trevixan a S. Bortolomio e li taiò le stringhe de le calze; el qual non volse consentir; andò ai Cai di X et dette la sua querela». Conosconsi alcuni decreti del Consiglio dei X promulgati nel medesimo secolo, dai quali si ricava che, per estirpare «abhominabile vitium sodomiae», si erano eletti due nobili per contrada; che ogni venerdì si doveva raccogliere il collegio dei deputati ad inquisire sopra i sodomiti; che tutti i medici ed i barbieri, chiamati a curare qualche uomo, oppure qualche femmina, «in partem posteriorem confractam per sodomiam», erano obbligati entro tre giorni di farne denunzia alla autorità; che finalmente i sodomiti s'appiccavano fra le due colonne della «Piazzetta», dopoché s'abbruciavano fin che fossero ridotti in cenere, pena inflitta eziandio il 10 ottobre 1482, a quella buona lana di Bernardino, da noi summentovato.

Tiepolo (Calle) a S. Apollinare. Il palazzo che sorge qui presso venne edificato dalla cittadinesca famiglia Cuccina, e credesi del Sansovino, o meglio, della sua scuola. L'ebbero poscia i Tiepolo, progenie illustre, oriunda di Roma, donde trasferissi a Rimini, e successivamente a Venezia. Essa diede tribuni, cooperò all'elezione del primo doge, ed in parte rimase del Consiglio nel 1297. Un Giacomo Tiepolo, dopo molto valore dimostrato ed eminenti servigi prestati alla patria, salì nel 1229 al soglio ducale. Egli compendiò le leggi veneziane, e fece dono ai padri di S. Domenico di quel terreno paludoso ove fabbricarono la chiesa ed il convento dei SS. Giovanni e Paolo. Né degenere fu Lorenzo di lui figlio, prode capitano dell'armata contro i Genovesi, vittorioso presso Tiro e conquistatore di Tolemaide, eletto doge pur esso nel 1268. Lungo sarebbe l'andar annoverando gli altri personaggi distinti della famiglia Tiepolo. A noi basterà ricordare Giovanni, patriarca di Venezia nel 1619, e quel G. Domenico autore dei «Discorsi sulla Storia Veneta», a rettificazione del Daru. Gli eredi di G. Domenico alienarono nel 1837 il palazzo a Valentino Comello, da cui passò nel 1852 al maresciallo austriaco Bartolomeo Stürmer, e successivamente nel 1856 ad Alberto conte Pourtalès, con riserva dell'usufrutto di parte dell'ente allo Stürmer, ed alla di lui consorte, vita naturale durante. Morto nel 1861 il Pourtalès, e nel 1863 i coniugi Stürmer, fu venduto nel 1864 ai conti fratelli Nicolò ed Angelo Papadopoli, i quali, dal 1874 al 1875, vollero rinnovarlo, ed ampliarlo, atterrando qualche stabile vicino. Negli scavi in tale occasione praticati si rinvennero alcuni oggetti preromani, cioè gran quantità di corna di cervo, lavorate ad uso di lisciatoi, un'ascia a mandorla in diorite nera, altra piccola ascia della stessa pietra e levigata, altre ascie in bronzo, ed un ornamento dello stesso metallo d'uso incerto.

Quando il palazzo era dei Tiepolo, vantava ricchissimo museo con numerosa biblioteca, ed accolse nelle proprie soglie molti principi, ed alti personaggi.

Anche a S. Tomà, presso la «Calle Centani», vi è una «Corte Tiepolo» perché un ramo della medesima famiglia qui possedeva due palazzi respicienti colla facciata il «Canal Grande», l'uno di stile lombardesco, e fregiato dagli affreschi dello Schiavone, e l'altro di stile archiacuto nel piano nobile. In «Ca' Tiepolo» a S. Tomà abitò, secondo il Fontana, lo storico Tentori.

Tintor (Sottoportico e Corte del) a S. Maria Mater Domini. Nel 1713 qui esistevano la «casa e bottega da tentor del sig. Domenico Anichini Affittual di Antonio Giamola». Pell'arte dei Tintori, che diede lo stesso nome ad altre strade di Venezia, vedi Tintori.

Tintoretto (Calle) alla Madonna dell'Orto.

Tintori (Rio dei) a S. Maria Maggiore. Varie tintorie erano stabilite nel 1661 lungo questo rivo, il quale anticamente era attraversato da un ponte detto della «Tintoria».

I Tintori unironsi in corpo anteriormente al 1436, ed avevano dapprima scuola di divozione, sotto il patrocinio di S. Onofrio, nella chiesa di S. Giovanni Grisostomo. Ricorda il Burani nel suo «Giornale Solario», che nei registri di detta chiesa esisteva, sotto l'anno 1490, l'annotazione seguente: «Per la scuola delli Tintori ogni anno si scuode il giorno di Mess: Sant'Onofrio, che è a dì 14 zugno, lire 44» ecc. I Tintori poscia, con istrumento 7 ottobre 1581, in atti Giovanni Figolino, ottennero per le proprie adunanze un locale presso il «Ponte dei Servi», ed in chiesa dei Servi eressero arche ed altare. Il locale inserviente alla scuola di quest'arte venne distrutto da un incendio nel 1769, e quindi rifabbricato. I Tintori si dividevano in tre classi: di sete, fustagni, e tele, facendo grandissimo traffico coll'Olanda, Fiume, Levante, e Turchia. Lo scarlatto ed il chermesino di Venezia godevano una rinomanza universale. I secreti delle tinture erano così meravigliosamente mantenuti da originare una singolarissima usanza. Le leggi ordinavano le stagioni nelle quali si dovevano comporre le misture per lo scarlatto. Siccome si voleva distrarre il pubblico dal por mente alla fabbricazione di tale tintura, solevasi spacciare qualche favola che mettesse paura nel popolo. Ora aggiravasi in que' contorni un fantasima bianco, ora un omaccio con un cappellone, ora un gigante con un lanternino in mano. Ecco come s'introdusse nel nostro vernacolo la parola «scarlatto», per indicare un timore senza fondamento. In questa guisa la credulità umana veniva messa a contributo dall'industria. Vedi l'opera: «Venezia e le sue Lagune», vol. I, p.te I, p. 180.

Tiozzi (Calle, Ramo e Corte, Corte, Sottoportico) a S. Eustachio. Rilevasi dalla Descrizione della contrada di S. Eustachio pel 1740 che qui presso abitava il «Rev.do D. Andrea Tiozzi» in una casa «in soler», presa a pigione il 20 agosto 1738 dal «N. U. Zuane Basadonna fu de m.r Gerol.o Proc.r». Si vede in seguito che il 29 marzo 1764 la casa «aff. al Rd. D. Andrea Tiozzi q. Marcantonio» passò dalla ditta «Zuane Basadonna fu de m. Gerolamo» in quella «dell'Ecc. Z. Fran.co Tiozzi q. Angelo», e ciò «in ordine ad istrumento di livello del dì 5 april 1764, atti D. Marco M.a Uccelli N. V.» G. Francesco Tiozzi, nipote di Andrea, fu Fiscal del Magistrato della «Milizia da Mar», e poscia Notajo del Magistrato dei «Sopramonasteri». Egli nel 1737 aveva sposato Isabella Luchini, la quale l'anno seguente gli partorì il figlio Angelo Maria, approvato cittadino originario il 2 aprile 1759. La famiglia Tiozzi teneva anticamente bottega da orefice all'insegna del «Sanson» in «Ruga» di Rialto, e negoziava di paste d'oro e d'argento in Zecca.

Tiziano (Campo di) in «Birri», a S. Canciano. A torto il continuatore del Berlan affermò che la presente denominazione è moderna, e data da quando l'abate Cadorin pubblicò l'operetta intitolata: «Dello Amore ai Veneziani di Tiziano Vecellio», poiché anche nella Descrizione della contrada di S. Canciano pel 1661 trovasi la «Calle del Tizian» in «Birri». L'abate Cadorin ebbe il merito bensì di provare, a luce di meriggio, che il sommo pittore abitava in una casa, posta qui presso. Si rileva che essa venne fabbricata nel 1527 dal patrizio Alvise Polani. Nel 1531 Tiziano la prese in affitto dal N. U. Leonardo Molin, marito di Bianca Polani, figliuola d'Alvise. Nel 1549 prese in affitto da Bianca, rimasta vedova, anche un prossimo «terren vacuo», che ridusse ad orto amenissimo, ove solevasi intrattenere a diporto coi propri amici. Di esso parla il rètore Priscianese in calce dei sei «Libri della Lingua Latina», impressi nel 1540, dicendo che, coll'Aretino, il Sansovino e Jacopo Nardi, venne invitato dal Vecellio a «ferrar agosto» in un suo giardino, il quale era posto «nella estrema parte di Vinegia, sopra il mare, là onde si risguarda la vaga isoletta di Murano, ed altri luoghi bellissimi». Continuò il Tiziano ad abitare nel medesimo sito anche nel 1566, trovandosi sotto quell'anno la Condizione dei beni di lui che incomincia: «Io Titian Vecellio q. m. Gregorio, habitante in la contrà di S. Cantiano in le case della mag. mad. Bianca Polani» ecc. Nel 1571 finalmente egli rinnovò coi proprietari successi alla Polani tutte le locazioni precedenti, ed in questa sua casa rimase fino alla sua morte avvenuta il 27 agosto 1576, il che è provato dalla fede seguente: «1585, 27 giugno. Alli Chiaris. sig. Avvog. et a qualunque Magist. Faccio fede io pre' Domenego Thomasini piovan della gesia di S. Cancian qualmente nel 1576, 27 agosto, morse il mag. m. Tizian Vecelio pitor, qual stava in biri grando nella mia contrada, come apar per nota B. livro appresso di me, e fu sepolto ali fra menori. In q. fidem. Di giesia ali 27 zugnio 1585. Idem presbiter ut supra scripsi et sigillavi». La casa di Tiziano, ove abitò anche Pomponio di lui figlio, e poscia, in epoche differenti, i pittori Francesco Da Ponte, detto il Bassano, e Leonardo Corona, ebbe ai nostri tempi una generale rifabbrica, nella quale occasione sradicossi l'albero dalle foglie rotonde, che Tiziano ritrasse nel quadro di S. Pietro Martire. Essa giace presso «Corte Rotta» al lato destro del «Campo Tiziano», e sopra il suo prospetto si pose nel 1880 commemorativa iscrizione. Né può fare ostacolo che la casa predetta si dica nei vecchi documenti situata in «Birri sopra il Canal Grande», oppure in «Biri magno versus paludes», e che il Priscianese chiami l'orto «posto sopra il mare», poiché a quell'epoca non esistevano ancora le «Fondamente Nuove» cogli edificii sorti dappoi, e benissimo dall'orto di Tiziano si poteva prospettare la laguna, la quale ora si scorge soltanto da lungi per mezzo della angusta «Calle Colombina».

Todeschini (Sottoportico, Corte, Sottoportico) a S. Apollinare. Da stabili della cittadinesca famiglia Todeschini, presso ai quali scorgesi innestata nel pavimento della via una lapide che porta scritto Pro.ta Tod.ni. Altra lapide prima portava scritto: Pro.ta Moros.ni poiché gli stabili dei Todeschini appartenevano in antico ai Morosini, e forse ad essi allude Marin Sanudo raccontando nei Diarii che il 5 febbraio 1525 M. V. venne fatta «una commedia a S. Aponal in cha Moroxini per Zuan Francesco Beneti dacier, et alcuni soi compagni, in la qual se entrava per bollettini. Era locho picolo. La fece Cherea, et fo una di Plauto di do frati non molto bella, la quale compite a hore 4 di notte».

Toffetti (Fondamenta) ai SS. Gervasio e Protasio. Tuttora sopra questa fondamenta scorgesi il palazzo Sangiantoffetti, e per brevità Toffetti, con qualche traccia degli affreschi onde fregiavalo il Tintoretto. Al tempo del Boschini e del Ridolfi, apparteneva alla famiglia Marcello, e, parlando de' suoi affreschi così si esprime il secondo degli accennati autori: «Ma tra le opere a fresco ottiene gli applausi primieri la facciata di casa Marcello di San Gervaso detto S. Trovaso, ove dipinse quattro favole d'Ovidio: di Giove e di Semele, d'Apollo che scortica Marsia, dell'Aurora che prende congedo da Titone, e di Cibele coronata di torri sopra un carro tirato da Leoni. Di sopra fece un lungo fregio inserito di corpi d'uomini e di donne ignude, così vivaci e freschi che pajono vivi, oltre ch'egli è il più curioso incatenamento di figure che da pittore inventar si potesse». Il vedere questo medesimo palazzo nelle «Singolarità» del Coronelli inciso sotto il nome di «Palazzo Foscarini a S. Trovaso» fa credere che, prima dei Sangiantoffetti, lo possedessero per qualche tempo i Foscarini. Esso il 22 gennaio 1763 patì un incendio, nella qual circostanza, affacciatosi ad un verone del suo palazzo il N. U. Alvise Nani, che abitava di fronte, restò colpito da morte repentina.

I Sangiantoffetti, o Toffetti, vennero da Crema, ed attesero alla mercatura, accumulando oro non poco. Fra essi un Gaspare, mentre dubitavasi di rottura coi Turchi, mostrossi pronto nel 1639 ad allestire a sue spese dieci vascelli, e dare mille ducati all'anno per anni sette. Egli venne imitato nella sua generosità dal nipote Carlo, che depositò argento nel 1647, ed offerse senza vantaggio danari a sollievo del pubblico. Il suddetto Gaspare sborsò pure 100 mila ducati per la guerra di Candia. Tali benemerenze fecero ammettere questa famiglia al patriziato nel 1649.

Tole (Barbaria delle) a SS. Giovanni e Paolo. In questa strada si veggono ancora varii magazzini di «tole» (tavole), laonde è chiara l'origine della seconda denominazione. Quanto alla prima, alcuni vogliono che il luogo si dicesse «Barbaria», quasi luogo selvaggio, da un'antica boscaglia. Altri, come il Gallicciolli, da alcune botteghe da barbiere. Altri dal traffico che qui facevano di tavole alcuni montanari, gente rozza e barbara. Altri finalmente dall'essere destinate le tavole qui accumulate pei paesi della Barbaria. Questa opinione è la più verosimile. Si sa dal Filiasi che i Veneziani portavano fino dai tempi più antichi legname in Barbaria, e che questo traffico fu regolato con una legge dell'822 dal doge Giustiniano Partecipazio. Si sa inoltre che nel 971 gl'imperatori Greci fecero gravi doglianze coi nostri pel legname da costruzione, pell'armi ed il ferro, che portavano nei paesi dei Saraceni.

I Mercanti da legname non erano uniti in corpo d'arte, ma soltanto in un consorzio, del quale cessava di far parte chiunque abbandonava quel traffico. Essi non avevano alcuna dipendenza dalla «Giustizia Vecchia». Pagavano una piccola tassa alla «Milizia da Mar», essendo soggetti pel dazio del legname ai «Governatori delle Intrade», e pel traffico ai «Cinque Savii alla Mercanzia».

Abbiamo nel libro «Spiritus» un'antica legge del 6 febbraio 1331 M. V. col titolo: «Barbariae Tabularum strata quomodo aptari fieri debeat a Dominis de Nocte».

Il Sabellico, dopo aver parlato del «Bersaglio dei SS. Giovanni e Paolo», così dice: «Contiguus inde vicus cum venalibus tabulis utrimque ad aedificandum dispositis; barbarum vicum vocant quem rectius tabularium dicerent».

Alla «Barbaria delle Tole» s'annoda la memoria di due furiosissimi incendi avvenuti nel secolo XVII, laonde due prossime strade portano tuttora il nome di «Calle Primo», e «Calle Secondo Brusà». Sviluppossi il primo di essi nel settembre del 1683, mentre il popolo era accorso a Castello a ricevere il giubileo largito per la liberazione di Vienna. S'appiccò il secondo il 2 giugno 1686, vigilia della Pentecoste, ad una bottega da legname, ed incenerì tutti gli stabili che sono dall'Ospedaletto a S. Maria del Pianto, stendendosi anche nel rivo di S. Giovanni Laterano. E' fama che allora restasse illesa dalle fiamme una sola casa, e ciò venne attribuito ad un miracolo di S. Antonio, la cui immagine veneravasi sul prospetto, laonde Nicandro Jasseo nel suo poema «Venetae Urbis Descriptio», pubblicato verso la fine della Repubblica, ha questi versi:

Hic domus extat adhuc, frontemque Antonius ornat;

Ille locis custos: dum saeva incendia circum

Omnia vastarent, mediis defensa periclis

Una domus, rapidis ceu tuta extollitur undis

Insula. Dum flammis alimenta voracibus apta

Ligna dabant, jacuere ignoto in pulvere merces;

Una intacta domus, quae divum in fronte receptum

Servabat, factique memor servabit in aevum.

Vi sottopose poi la seguente annotazione: «Inter receptacula lignorum domus est olim illaesa ab igne S. Antonii Patavini beneficio, cujus imago, ut nunc etiam, parvo sub tholo in fronte domus aderat». Tale immagine è forse quella, che ancora pochi anni fa scorgevasi in un piccolo altarino, o capitello, sopra la facciata della casa al N. A. 6663.

Narrano alcuni cronisti che anticamente eravi un ponte di legno dalla «Barbaria delle Tole» al «Campo di S. Lorenzo», ponte che esisteva anche nel 1443.

Tolentini (Parrocchia, Fondamenta, Campo, Rio, Ponte dei). In occasione del famoso sacco che patì Roma dalle armi di Carlo V, i chierici Regolari Teatini, la congregazione dei quali era stata fondata in quella città nel 1524 da Giovanni Pietro Caraffa, poscia Paolo IV, e da S. Gaetano da Thiene, cercarono un rifugio in Venezia. Abitarono dapprima nell'ospitale degli Incurabili, poi alla Giudecca, poi nell'Abazia di S. Gregorio, e finalmente, ottenuto nel 1528 un oratorio, che una divota confraternita aveva fabbricato fino dal 1505 in onore di S. Nicolò da Tolentino nella parrocchia di S. Pantaleone, presso al medesimo si stabilirono. Essi nel 1591 s'accinsero ad ampliarlo, ed innalzarvi appresso un convento, affidando ambedue le opere all'architetto Scamozzi. Il tempio, che sorse bello e grandioso, fu consecrato il 20 ottobre 1602 da Matteo Zane patriarca di Venezia, sotto l'antico titolo di S. Nicolò da Tolentino, onde poscia corrottamente si disse dei «Tolentini». Il magnifico vestibolo venne aggiunto da Andrea Tirali sul modello del tempio di Antonino e Faustina in Roma. Giunto l'anno 1810, il convento si ridusse a caserma, e la chiesa si dichiarò parrocchiale, assegnandovisi per circondario la massima parte della soppressa parrocchia di S. Croce, ed alcune frazioni di quelle di S. Margarita, e di S. Pantaleone.

Avendo Francesco Morosini nel 1684, il giorno di S. Gaetano, acquistato Corone, si decretò che lo stendardo a due code preso al serraschiere Ottomano fosse appeso all'altare di detto santo nella chiesa dei Tolentini. Succeduta poi la conquista di tutta la Morea, di Corinto, e di Atene, si volle eziandio che la chiesa medesima fosse visitata ogni anno dal doge e dalla Signoria nel giorno di S. Gaetano in riconoscenza che sotto i di lui auspicii aveva incominciato il favorevole andamento della guerra.

Leggiamo nelle «Memorie» manoscritte del prete Zilli che un certo Romano, fingendosi divoto di S. Gaetano, venerato in chiesa dei Tolentini, e facendo qualche elemosina a quei padri, diede loro ad intendere nel 1780 d'aver un secreto incomparabile per pulire i metalli e le gioje. Allora i gonzi gli consegnarono (tanto più che diceva di lavorare gratuitamente) molte argenterie della chiesa, ed anche le gioje onde era fornita la statua di S. Gaetano. Senonché ben presto s'accorsero che gli oggetti loro restituiti di buoni erano divenuti falsi, per cui sporsero querela, ma indarno, poiché il mariuolo che gli aveva danneggiati per circa 4000 ducati, era già fuggito da Venezia.

Toletta (Sacca, Ramo, Ramo Secondo, Calle Seconda, Calle, Rio, Ponte della) ai SS. Gervasio e Protasio. Corre tradizione che così si dicessero queste strade perché anticamente una «toleta», ossia piccola tavola, faceva l'uffizio di ponte per passare il canale.

Tonda (Riva) a S. Salvatore. E' così detta, come bene si può scorgere, dalla sua conformazione.

Torni (Sottoportico e Corte dei) a S. Bartolammeo, in «Calle dei Bombaseri». Queste strade, attualmente chiuse, si dicono nell'estimo del 1740, e nelle piante topografiche del Paganuzzi e del Quadri, «Sottoportico e Calle del Torni». Sappiamo poi che fino dal 1° maggio 1737 un «Alvise Torni, bombaser al S. Isepo», aveva preso a pigione una casa ed una bottega posta in questo sito da «Annibale Tasca q. Nicolò». La famiglia Torni costrusse due tombe in chiesa di S. Bartolammeo. Malamente poi le medesime località nell'Anagrafi pubblicata dal Municipio nel 1841, ed in quella aggiunta alla Planimetria dei fratelli Combatti nel 1846, si chiamano «Sottoportico e Corte del Forno».

Tornielli (Calle) alla Maddalena.

Torre (Calle della) a Rialto. Vedi Angelo.

Torreselle (Rio delle) a S. Vito. Da un antico palazzo, ora distrutto, che, per avere una torre sulla sommità, si disse «dalla Torresella», e quindi, per corruzione, «dalle Torreselle», laonde assunse questo soprannome il ramo della famiglia Venier, che fino dall'origine n'era il proprietario. Il palazzo suddetto guardava con la facciata il «Canal Grande», e sorgeva all'imboccatura del rivo, lungo il quale se ne scorgono tuttavia i marmorei basamenti. Esso nel secolo XVI andò diviso fra varii individui della famiglia Venier. Successivamente, una parte, pel testamento 6 febbraio 1571 M. V. di Girolamo Venier q. G. Francesco, ne toccò a Laura moglie di Polo Trevisan, ed a Pietro Donà fu Tommaso, mentre un'altra parte, pel testamento 12 gennaio 1586 M. V. di Diana, vedova di G. Francesco Venier q. Nicolò, ne toccò all'arciconfraternita di S. Rocco. Dopo altre divisioni ed altri trapassi di proprietà, tutto il palazzo venne in potere dei Donà, meno la parte della confraternita di S. Rocco, che però dai Donà veniva tenuta a pigione. Perciò i Donà si dissero anch'essi «dalle Torreselle».

In vicinanza, un altro ramo della patrizia famiglia Venier possedeva un palazzo, che, secondo le cronache, anteriormente apparteneva ai Da Mula, e che, pel testamento di Girolamo Venier proc. di S. Marco q. Nicolò 19 marzo 1733, e codicilli 21 luglio 1733 e 30 maggio 1734 in atti Carlo Gabrieli, andò distrutto allo scopo d'innalzare colà una fabbrica più decorosa. Un disegno di essa venne, con altri, presentato ai Venier da Lorenzo Boschetti nel 1749, e conservasi oggidì in legno nel patrio Museo, dono dei fratelli conti Papadopoli. Ma l'opera, non si sa per qual causa, rimase interrotta ne' suoi primordi, e l'area relativa, meno i mezzanini stabiliti sulle basi, è ora ridotta ad ortaglia. In quest'area per alcuni anni visse un leone, che i Venier avevano fatto venire dalla Barberia nel 1763, e che si faceva vedere mansuefatto in mezzo ad alcuni cagnolini. Così ne cantò Nicandro Jasseo:

.........................................Observare leonem

Diffusis per colla jubis, fastuque superbo

Lente incedentem poteris; comes additur intus

Turba canum ferae in obsequium, quae visa timorem

Dissimulare, ultro venientibus obvia (crates

Qua minus impediunt) laetis se motibus offert.

Il «Rio delle Torreselle» trovasi chiamato nelle cronache «Rio delle Piere Bianche», forse per la bianchezza delle pietre onde un tempo erano formate le sue rive. Lungo il medesimo, sulla «Fondamenta Zorzi o Bragadin», havvi l'ospitaletto della «Frescada». Vedi Frescada (Ponte ecc. della) e Zorzi o Bragadin (Fondamenta).

Toscana (Calle, Ramo, Calle) a Rialto. Molti Toscani trasmigrarono nel secolo XIV da Lucca, lor patria, a Venezia, ove, se non introdussero, perfezionarono al certo l'arte della seta. Ciò avverossi a varie riprese, poiché, per le civili discordie, parte di essi venne prima del 1307, parte nel 1309, parte nel 1314, parte finalmente nel 1317. Riferiscono le cronache che i Toscani, o Lucchesi che dir si vogliano, si sparsero dapprima nei contorni di S. Bartolammeo e di S. G. Grisostomo, poscia fissarono eziandio il loro domicilio in Rialto Nuovo, avendo ottenute alcune case dal pubblico. Nel 1514 provvisoriamente se ne partirono, poiché troviamo nei Diarii del Sanudo che dopo il terribile fuoco, il quale in quell'anno devastò Rialto, «li Toscani tutti andarono a stare dove prima stavano a S. Bortolomio». Vi furono di ritorno però poco dopo, ciò potendosi dedurre dal Sanudo medesimo ove racconta che il 21 febbraio 1525 M. V., si fece «in Rialto Novo per li Toscani una bella festa con soleri, bufoni, et altre zentilezze». Ed anche nelle Condizioni di beni presentate nel 1537 vediamo spesse volte nominate «le case e volte dei Toscani in Rialto Nuovo». Le ricchezze che avevano portato a Venezia, e l'interesse che ne ritraeva il governo fecero sì che godessero di molti privilegi, fra i quali della veneta cittadinanza, il perché alcuni s'imparentarono colle principali famiglie patrizie, e furono nobili del Consiglio. Per la loro scuola di divozione, ed il locale delle loro adunanze vedi Volto Santo.

Traghetto (Calle, Ramo, Sottoportico del) a S. Canciano. Mettono al traghetto pell'isola di Murano, a cui ora si accede più comunemente per la parte del «Ponte di S. Canciano». Questo traghetto è antichissimo, narrando un vecchio cronista che il doge Angelo Partecipazio, il quale nel nono secolo aveva foro nel prossimo «Campiello della Cason», teneva delle barche armate colà ove ricevevansi quelle provenienti dall'isola di Murano. Sono pure antichi i traghetti del «Canal Grande», cagione del nome di varie nostre strade. Il Gallicciolli ne attesta l'esistenza fino dall'undecimo secolo, ed allora facevasi il passaggio sopra certe piccole barche chiamate «sceole», colla spesa d'un «quartarolo». Tutti i barcajuoli dei traghetti di Venezia formavano una confraternita, divisa in parecchie altre. Col titolo di «libertà dei traghetti» s'intendeva il diritto di occupare i posti ove doveano stanziare le barche destinate a tragittare le persone, né lieve era il profitto che traevano i padroni di queste libertà, affittandole ai barcajuoli.

La Scuola dei Barcajuoli del Traghetto di Murano fondossi nel 1491 in S. Cristoforo, donde all'epoca democratica passò a S. Maria degli Angeli di Murano.

Tramezina (Corte). Vedi Tremosina.

Trapolin (Corte, Fondamenta del) a San Marziale. In parrocchia di S. Marziale morì il 2 febbraio 1550 M. V. «D. Menega Trapolina amalada za molti ani». Eravi fra noi una famiglia Trapolin, venuta da Cipro, un Ettore della quale diede in isposa nel 1539 una propria figlia al N. U. Francesco Bembo q. Alvise.

Trasti (Rio dei) a S. Alvise. Questo rivo è attraversato da un ponte, ora chiamato «Rosso», ma che nella pianta del Coronelli si chiama «Ponte di Santo dei Trasti», da un Santo che fabbricava i «trasti», cioè quegli assi i quali, attraversati alle gondole ed ai battelli, servono a tenerli saldi, ed a comodo di sedere.

Si conosce una legge del 1623 con cui proibivasi che i trasti delle gondole fossero costruiti, od intarsiati d'ebano, e vi si facessero figure, piramidi, pomoli ecc. con intagli scavati o rilevati.

Tremosina (Corte) allo Spirito Santo. Leggasi «Tramezzina», come nei catasti, dalla cittadinesca famiglia Tramezzin, che, secondo le cronache, venne dalla Romagna, e che esercitava con lode l'arte tipografica all'insegna della Sibilla. Un «Michiel Tramezzino habitante nella contrà di S. Gregorio appresso allo Spirito Santo» notificò nel 1582 cinque case colà poste. E nell'anno medesimo Cecilia figliuola del q. Francesco Tramezzin, allora domiciliata in Roma, confessò di possedere «casette undese in contrada di S. Gregorio in Corte Tramezzina». Si scorge che anche nel 1713 una «Isabetta Barnabò Tramezzina» era proprietaria di quattro case presso lo Spirito Santo in «Corte Tramezzina».

Trevisan (Sottoportico) a S. Agnese. In questo luogo ancora sussiste, benché in mille modi deturpato, l'antico palazzo Trevisan, che guarda col prospetto le «Zattere», e che ha d'innanzi due olivi, trasportati, dicesi, da un'isola dell'Arcipelago.

Della famiglia che ne era la proprietaria così, nel suo «Campidoglio», parla il Capellari: «Hanno creduto alcuni autori che la famiglia Trevisano fosse di origine diversa, e tra sè distinta, per trovarsi che da differenti luoghi ella si sia in Venetia tradotta, et per la dissomiglianza dell'armi che porta, ondeché separatamente ne scrissero, ma il Freschot consente che ella sia d'un'unica ascendenza, et che, diramatasi in varie linee, da Aquileja prima, e poi da Trevigi ancora, dove in parte s'era diffusa, facesse a Venetia passaggio, et in verità l'arbore che si vede di questa casa è un solo, e tutto provenuto da un medesimo stipite; nè osta punto la varietà dell'armi gentilizie delle quali si serve la famiglia, poichè queste furono introdotte per motivo di distintione, come chiaramente lo dicono il Malfatti, ed il Freschot predetto. Per tanto la prima venuta dei Trevisani a Venetia fu dalla città d'Aquileja, o ai tempi d'Attila, come vuole il Piloni, nell'Historie di Belluno, oppure l'anno 705, come scrive il Palladio nella prima parte dell'Historia del Friuli... Vennero poi gli altri da Trevigi, e tutti insieme produssero huomini antichi, savii, cattolici, molto discreti, amatori della Patria, e gran maestri di Mare. Nel chiudere del Gran Consiglio l'anno 1297 parte di questa casa rimase fra le popolari, ma fu poi riassunta fra le Patritie l'anno 1381 per la guerra dei Genovesi. Gode una linea di essa la Contea di S. Donato nel Trivigiano, come per privilegio di Carlo V, et ha prodotti vescovi, e prelati degnissimi, un Serenissimo Principe di Venetia, dieci procuratori di S. Marco, Dottori, Cavalieri, Senatori, e Generali in tanta copia quanto alcuna altra famiglia patritia. Fondò e dotò in antichissimi tempi la celebre Abatia di S. Tommaso dei Borgognoni nell'isola di Torcello, sopra la quale conserva jus patronato, fabbricò le chiese di S. Benedetto, S. Gio. in Oleo, e di S. Gio. Elemosinario di Rialto, come pure ha sepolcri, memorie, et iscritioni nobilissime in molte altre».

Venendo poi a parlare particolarmente del ramo Trevisan da S. Agnese, esso è antichissimo in tale contrada, poiché un Marco Trevisan vi fece testamento nel 1242 in atti d'un Marco prete di S. Apollinare. Il ramo suddetto aveva pure sepolcro in chiesa di S. Agnese con epigrafe illustrata dal Cicogna.

La famiglia Trevisan diede il nome ad altre strade della città.

Trevisana (Calle) a S. Maria Formosa. E' chiamata negli Estimi «Calle di cha Trevisan», per la qual famiglia vedi l'articolo successivo.

In «Calle Trevisana» a S. Maria Formosa abitò dal 1827 al 1865 Emmanuele Antonio Cicogna, l'illustre autore delle «Inscrizioni Veneziane», in una casa che allora era di proprietà Pisani, ma che un tempo apparteneva ai Bondumier, il cui stemma scorgevasi sul poggiuolo, architettura del secolo XV, che fu più volte fotografato. Ma nel 1865, in occasione di rifabbrica, il Cicogna dovette abbandonarla, e riparare in un'altra casa vicina, al N. A. 6217, ove venne a morte il 22 febbraio 1868.

Trevisani (Campiello, Calle) a S. Marziale. Da un ospizio destinato ai poveri cittadini di Trevigi. Esso dipendeva dall'ospitale di quella città come s'impara dall'iscrizione: Hospitalis Divae Mariae Virginis Tarvisii, che, sotto stemma, si legge sulla facciata dello stabile, ora ridotto a privata abitazione, sul «Rio della Sensa».

Esiste una determinazione del 12 ottobre 1581 per cui le barche di Trevigi dovevano approdare alla prossima «Fondamenta della Misericordia».

Turchette (Ponte, Calle, Fondamenta delle) alle Eremite. Dice il Fontana correre tradizione, che, allorquando non era ancora istituita in Venezia la casa dei Catecumeni, qui fosse confinata una colonia di prigioniere «Ottomane», dette le «Turchette», per condurle alla religione di Cristo. Sembra che la tradizione suddetta abbia qualche fondamento di verità, poiché nel libro delle «Case della Commissaria Dalla Vecchia», appartenenti alla Scuola Grande di S. Rocco, si trovava scritto che questa confraternita possedeva una casa in parrocchia di S. Barnaba in «Calle Longa, dove stava le Turchette». Si faccia osservazione poi che la «Calle delle Turchette» sbocca appunto in «Calle lunga» di S. Barnaba, e che sulle prossime case scorgesi tuttora scolpito lo stemma della confraternita di S. Rocco.

La «Fondamenta delle Turchette» è detta anche «di Borgo» per essere vicina al così detto «Borgo di S. Trovaso».

Turlona (Calle, Ponte) a S. Girolamo. Sappiamo che nel secolo XVI la cittadinesca famiglia Turloni abitava a S. Polo, e precisamente nella calle oggidì chiamata «Pezzana», (vedi sotto questo nome), ma che possedeva una ruga di ventiquattro case in parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato, presso S. Girolamo. Di tali case parla il Sanudo nei suoi Diarii, sotto la data del 1° ottobre 1503, colle seguenti parole: «Dapoi disnar fo gran consejo, et veneno do fioi dil sig. Zuan Francesco di Gonzaga, zermani dil marchese di Mantoa, zoveni ben disposti e formosi, nominati l'uno Lodovico, l'altro Federico; venuti per avanti qui. Voleano conduta; alozono a cha' Turlon a S. Hieronimo».

La famiglia Turloni venne dal territorio Bergamasco, ed esercitava l'arte della lana con cui acquistossi molte ricchezze. Giacomo Turloni donò in occasione della guerra di Chioggia buona parte delle sue facoltà alla Repubblica, il che lo fece ballottare, benché senza effetto, pel Maggior Consiglio. Un altro Giacomo Turloni venne eletto vescovo di Traù. Un Gaspare fu grandemente accetto a varii principi, ma principalmente a Stefano Batory principe di Transilvania, e poi re di Polonia, al cui fianco combattè valorosamente contro i Turchi, soccorrendo una fiata il principe stesso caduto da cavallo, e prossimo ad essere oppresso dai nemici. Ricolmo perciò d'onori e ricchezze, ritornò a Venezia, ove soleva camminare per la città burbanzoso con codazzo di bravi e soldati, commettendo anche qualche violenza. Avendo perciò incontrato l'inimicizia di molti patrizi, fra i quali di Leonardo Moro, venne imprigionato, ma poscia, fuggito di prigione, esiliato nel 1599 colla perdita di tutte le sue facoltà. Egli morì in Fiandra col titolo di Capo Fanteria, ed in lui si estinse la famiglia Turloni. Nel 1599 Paolo Antonio Labia comperò dal fisco le case che Gaspare possedeva a San Girolamo, e le ristaurò nel 1603, come si deduce da una lapide tuttora visibile sul prospetto. Nella sala di una di queste case si rappresentarono nel 1746 opere in musica, facendosi agire sopra la scena figure di legno, e cantare gli artisti dietro le quinte, accompagnati da numerosa orchestra. Il Groppo, nel suo «Catalogo di Drammi per Musica recitati nei Teatri di Venezia», rende testimonianza che in tal genere non si potea vedere cosa più nobile e grandiosa, che costò essa ai Labia una gran somma, e che tutto sorpassava la credenza di chi non n'era stato testimonio oculare. Lo spettacolo, che si dava gratuitamente, fu anche onorato dall'intervento delle duchesse di Modena, le quali, a cagione della guerra, dimoravano allora in questa dominante.

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